Quando si parla di sostenibilità della moda, si pensa troppo spesso al solo impatto ambientale. Ma il sistema moda impatta, in maniera devastante, anche sulla dignità e qualità della vita di milioni di persone che lavorano nella catena di fornitura.

Quindi, se qualche brand internazionale è più o meno impegnato sulla sostenibilità ambientale, cercando di fare meno danni possibili, cosa ne è della sostenibilità sociale?

Può essere sostenibile una moda che sfrutta le persone impiegate lungo la catena globale di produzione? Sostenibilità significa equilibrio e non c’è equilibrio tra la forza contrattuale delle imprese committenti, i loro fornitori e i lavoratori delle fabbriche di produzione, ultimo anello della catena del valore.

Sacche di sfruttamento del lavoro si registrano ovunque. Anche in Italia. I lavoratori non sono sempre o del tutto tutelati. Ci sono i contratti collettivi nazionali del lavoro (Ccnl) del settore tessile, abbigliamento e calzature (Tac), ma ci sono anche i contratti pirata, il lavoro nero e altre forme di lavoro atipico. Tutto questo porta alla cosiddetta povertà lavorativa, un tema complesso che richiede risposte articolate e adeguate.

Il salario dignitoso di base è una delle risposte. Non la sola. Ma da qualche parte si deve pur cominciare.

Il salario dignitoso di base della Campagna Abiti Puliti per l’Italia

Nei giorni scorsi la Campagna Abiti Puliti (la sezione italiana della Clean Clothes Campaign, rete internazionale che riunisce organizzazioni a difesa dei diritti umani, dei lavoratori nel settore dell’abbigliamento), ha presentato il rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda”. Un report che si inserisce nell’attuale dibattito tutto italiano sul riconoscimento di un salario minino per legge anche nel nostro Paese.

La proposta della Campagna Abiti Puliti va oltre il salario minimo legale che segue logiche di mercato. Propone, piuttosto, un salario dignitoso di base, sulla scia di quanto elaborato dalla Clean Clothes Campaign per l’Asia e per l’Europa orientale e sud-orientale.

Si tratta di un lungo lavoro messo a punto secondo la situazione italiana. Di cosa si tratta? Del calcolo di un salario dignitoso di base familiare, cioè che mette in relazione il salario individuale con la dimensione e i bisogni familiari essenziali del nucleo familiare. Da sottolineare che il salario dignitoso di base è un diritto umano universale ed è riconosciuto dall’articolo 36 della nostra Costituzione.

“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione  proporzionata alla quantità e  qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare  a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Art. 36 DELLA cOSTITUZIONE iTALIANA

Quanto vale il diritto universale al salario dignitoso di base in Italia?

Secondo i calcoli della Campagna Abiti Puliti il valore del salario minimo dignitoso familiare a partire dal settore moda è di 1.905 euro netti mensili cioè 11 euro netti all’ora, ipotizzando una settimana lavorativa standard di quaranta ore settimanali.

Il calcolo è su una famiglia composta da tre persone. I bisogni primari considerati sono: alimentazione, vestiario, trasporti (abbonamenti ai trasporti pubblici), alloggio (spese per l’affitto o rate del mutuo, manutenzione ordinaria della casa), utenze domestiche (elettricità, riscaldamento, acqua, raccolta rifiuti, telefono, internet), istruzione, cultura e tempo libero, spese mediche ordinarie, vacanze (un viaggio della durata di una settimana per tutta la famiglia all’interno del proprio paese).

Una volta definito il valore monetario della spesa alimentare familiare, e stabilita una quota percentuale, si ottiene il valore del salario dignitoso: la somma della spesa alimentare e della spesa non alimentare.

 

Campagna abiti puliti: “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda”.

Perché il salario dignitoso di base anche in Italia?

Hai mai sentito parlare di povertà lavorativa? E’ una realtà in espansione causata dalla diffusione di forme di lavoro non standard, cioè non a tempo indeterminato e full time.

A livello europeo, viene considerato lavoratore povero chi nel corso dell’anno ha lavorato almeno 7 mesi e vive in una famiglia il cui reddito disponibile è inferiore alla soglia di povertà relativa (60% del reddito medio nazionale). 

Nel 2019, come riferisce il Report della Campagna Abiti Puliti, Eurostat rilevava per l’Italia un tasso di rischio di povertà lavorativa per i lavoratori di età compresa tra 18-64 anni dell’11,8%. Si tratta di 2,8 punti percentuali al di sopra della media UE-27, con valori più elevati per i lavoratori a tempo determinato, tempo parziale e per gli autonomi. 

Inoltre, se si guarda dai primi anni 2000 ad oggi, l’indicatore del rischio di povertà lavorativa in Italia è aumentato di 3 punti percentuali circa.

Tra le cause, l’aumento incontrollato negli ultimi 10 anni dei cosiddetti contratti pirata, sono accordi stipulati da organizzazioni sindacali e datoriali non rappresentative (spesso fittizie o di comodo).

Questi accordi promuovono retribuzioni più basse rispetto a quelle previste dai Ccnl stipulati dalle sigle sindacali più rappresentative, peggiorando le condizioni retributive di migliaia di lavoratori.

Come riferisce il rapporto della Campagna Abiti Puliti, a fine 2021 nel solo settore del tessile, abbigliamento e calzature erano depositati nell’Archivio del CNEL ben 32 contratti collettivi.

Secondo dati del 2019, il Made in Italy del tessile, abbigliamento e calzature è formato da 55mila imprese, soprattutto di piccola e piccolissima dimensione. Il totale degli occupati è di 473 mila addetti.

Moda Made in Italy e la caduta dei prezzi di acquisto

L’Italia è uno snodo fondamentale della produzione mondiale di tessile-abbigliamento-calzature. Ma nel Made in Italy, famoso e riconosciuto in tutto il mondo, non mancano i problemi. «La caduta dei prezzi di acquisto – è spiegato nel Report –  da parte dei marchi committenti nelle filiere globali di fornitura, ha acuito la competizione verso il basso anche in Italia.

Così, fornitori e terzisti soffrono le stesse dinamiche di potere imposte dai marchi a capo delle filiere. Questo squilibrio di forze è tra le principali cause di lavoro povero e insicurezza per lavoratori e lavoratrici del settore.

In più, «il settore tessile e moda in Italia è composto principalmente da imprese di piccola e piccolissima dimensione, costrette a competere sui costi per restare sul mercato, mettendo a rischio diritti e sicurezza sul lavoro, in particolare nei subappalti».

Tutto il potere contrattuale in mano ai marchi committenti

«A livello globale – ha spiegato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti –  abbiamo una industria della moda che sfrutta i lavoratori e li paga 1/3, 1/4 o un 1/5 rispetto al salario dignitoso di base. Un’industria che produce fast fashion o ultra fast fashion, tonnellate e tonnellate di capi di cui non abbiamo bisogno a prezzi molto bassi perché sfrutta persone e ambiente. Un’industria che produce precarietà, infelicità, malessere e inquinamento».

Cosa possiamo si può fare per cambiarla? «Prima di tutto, è fondamentale agire sul salario, rimettere ordine nel rapporti di asimmetria tra committenti e fornitori, ora a totale favore dei marchi. Questo significa redistribuire valore lungo la catena di produzione. Vuol dire obbligare le imprese committenti ad adottare pratiche commerciali a prezzi di acquisto coerenti con un salario minimo dignitoso. E’ necessaria una riconversione dell’industria della moda verso un modello sostenibile che, secondo noi, significa equità, inclusività, partecipazione piena del sindacato dei lavoratori».

Il salario dignitoso di base avrebbe ricadute positive anche sulla sostenibilità ambientale.

«Il pagamento di salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera, diritto umano e sociale fondamentale, rappresenta un passo determinante poiché obbligherebbe le imprese a produrre meno e meglio, con impatti potenzialmente positivi sul benessere dei lavoratori, sull’ambiente e sulla stessa economia. Si potrebbe così finalmente virare verso un nuovo modello di organizzazione di impresa più sostenibile, democratico e basato su un ripensamento dei tempi di vita e di lavoro». Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti

La Campagna Abiti Puliti propone il salario dignitoso di base, e la sua metodologia di calcolo, come parametro di riferimento (benchmark) per definire i minimi salariali contrattuali nel settore Tac. Non si tratta di un obbligo di legge, ma del valore a cui le remunerazioni minime dovrebbero tendere per garantire a tutti i lavoratori e alle loro famiglie un’esistenza libera e dignitosa.

Inoltre, con i dovuti aggiornamenti dei prezzi su base nazionale, potrebbe diventare il metodo per calcolare il salario minimo legale nel più generale contesto dell’economia italiana.

Infine, ha concluso Deborah Lucchetti: «Anche con il migliore salario dignitoso di base, anche con i migliori Ccnl, è necessario rafforzare le strutture di controllo, cioè l’ispettorato nazionale del lavoro».

Foto @ron-lach da pexels

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