Contro il greenwashing ora c’è la direttiva dell’Unione europea. Si tratta di un importante passo in avanti contro le dichiarazioni ambientali ingannevoli che proliferano in diversi settori, in particolare in quello della moda. Il testo è stato approvato sia dal Parlamento che dal Consiglio, quindi dopo la pubblicazione in gazzetta ufficiale dell’Ue, gli Stati membri hanno due anni di tempo per recepirla.

Questa direttiva ci aiuta a fare scelte di acquisto informate e a non cadere nell’ambientalismo di facciata. Il provvedimento infatti modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE aggiungendo ulteriori pratiche commerciali sleali e vietate, permettendo così di scegliere prodotti o servizi che abbiano caratteristiche di sostenibilità provate.

D’altra parte per andare verso una economia circolare e a basso impatto ambientale è necessario avere consapevolezza di quello che si acquista, altrimenti si rischia involontariamente di finanziare aziende sleali che si professano paladine dell’ambiente quando non lo sono affatto.

Non solo, la direttiva affronta anche le informazioni ingannevoli sulle caratteristiche sociali di un prodotto. Dichiarazioni che, ad esempio, riguardano le condizioni di lavoro, i salari, la protezione sociale la sicurezza dell’ambiente di lavoro, la parità di genere. Le asserzioni sociali includono anche aspetti etici come il benessere degli animali.

Il greenwashing è un fenomeno dilagante riguarda diversi settori produttivi, ma l’industria del tessile e moda in particolare.

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Come scrive AWARE nell’analisi “La transizione del settore della moda: criticità e soluzioni“, il greenwashing si riscontra maggiormente nelle multinazionali della moda. Cioè in quelle aziende che «per poter continuare a produrre innumerevoli collezioni, ricorrono a canali di approvvigionamento fondati sullo sfruttamento delle risorse naturali ed umane». Ed è proprio tra queste «che si riscontra la maggior parte dei casi di greenwashing: professando la loro sostenibilità, riescono nel duplice scopo di rassicurare i propri clienti e continuare a generare profitto in modo indiscriminato».

In un’indagine del 2020 coordinata dalla Commissione europea sui siti di e-commerce dei Paesi Ue, su 344 dichiarazioni ambientali circa la metà potevano ritenersi false o ingannevoli.

Proprio nel tessile, abbigliamento e scarpe si sono riscontrati i più alti livelli di pubblicità ingannevole e pratiche commerciali sleali.

Settori produttivi maggiormente interessati dal fenomeno del greenwashing

Fonte: Commissione Europea, 2020, Sweep on misleading sustainability claims

Direttiva Ue greenwashing: pubblicità, etichette più chiare e affidabili

Le nuove regole renderanno la pubblicità più accurata e l’etichettatura dei prodotti più chiara e affidabile.  Vietato l’uso di affermazioni ambientali generiche come “ecologico”, “naturale”, “biodegradabile”, “climaticamente neutro” o “eco” senza prove documentate e attendibili.

L’uso delle etichette di sostenibilità sarà regolamentato, data la confusione causata dalla loro proliferazione. In futuro nell’Ue saranno consentite solo etichette di sostenibilità basate su sistemi di certificazione ufficiali o stabiliti da autorità pubbliche.

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Inoltre, la direttiva vieta l’affermazione secondo cui un prodotto ha un impatto “neutro”, “ridotto” o “positivo” sull’ambiente rispetto alle emissioni di anidride carbonica (CO2). Queste affermazioni in genere sono collegate a sistemi di compensazione e non a una effettiva riduzione delle emissioni di gas serra sull’intero ciclo di vita del prodotto.

Un esempio di compensazione è l’assorbimento di un certo quantitativo di emissioni CO2 attraverso l’adesione dell’azienda a programmi di riforestazione.

Altre affermazioni generiche e molto in voga sulle quali si sofferma la direttiva sono: “sostenibile”, “responsabile” e “consapevole”. Quante volte le abbiamo sentite e viste in etichetta o sui siti di e-commerce? Ebbene, finalmente a questi termini viene dato il giusto valore; infatti, sono da evitare se il riferimento è solo alle prestazioni ambientali – seppur certificate – e non anche ad altre caratteristiche, come quelle sociali.

Ad esempio, se un vestito è stato prodotto utilizzando al minimo la chimica, il consumo di acqua, è 100% riciclabile, ma poi chi lo ha confezionato non gode delle tutele del lavoro e non percepisce nemmeno un salario adeguato, allora quello che stai comprando non è né sostenibile, né responsabile, né consapevole.

Questa direttiva non è l’unico provvedimento contro il greenwashing, anzi. Infatti sarà integrata da una direttiva ancora più specifica, quella sul Green Claims, sulle dichiarazioni verdi, che è attualmente in discussione.

Foto: Canva

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