Con oltre 2,5 trilioni di dollari l’industria della moda è tra le più ricche del Pianeta. Senza difficoltà alcuna, potrebbe investire almeno il 2% dei suoi profitti annuali per passare dai combustibili fossili alle energie rinnovabili lungo la filiera produttiva. Insomma, gli azionisti o i consiglieri dei grandi brand non cadrebbero in povertà e le borse non crollerebbero.

L’industria della moda deve urgentemente assumersi le sue responsabilità, visto che è anche tra le industrie più inquinanti. È quello che chiede Fashion Revolution ai principali marchi di moda globali nel rapporto “What Fuels Fashion?” (“Cosa alimenta la moda?”), un’edizione speciale dell’annuale Fashion Transparency Index.

L’industria della moda deve accelerare passando dalle promesse ai fatti. Il report più recente sulle emissioni globali dell’industria della moda èFashion on climate“ di McKinsey.

Secondo questo studio nel 2018 l’industria dell’abbigliamento è stata responsabile del 4% delle emissioni globali, circa 2,1 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti, in pratica quanto Francia, Regno Unito e Germania messe insieme. 

Ma a causa della scarsa trasparenza del settore il quantitativo esatto delle emissioni di gas serra nell’atmosfera dell’industria del fashion non è noto, le stime, infatti, vanno dal 3% al 10%.

Ad ogni modo, senza azioni drastiche e decisive, il settore moda aggiungerebbe nell’atmosfera un ulteriore 30% di gas ad effetto serra entro il 2030. Cosa che non ci possiamo permettere, visto che al 2030 le emissioni vanno dimezzate per evitare che la temperatura media globale continui a salire con eventi climatici sempre più estremi.

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Moda fossile: 250 brand sotto esame

Fashion Revolution ha esaminato e classificato 250 dei più grandi marchi e rivenditori di moda del mondo (con un fatturato di 400 milioni di dollari o più) per sapere quanto sono trasparenti e cosa stanno facendo rispetto agli impegni climatici presi, dalla decarbonizzazione all’approvviggionamento energetico sia nelle loro operazioni dirette (sedi e negozi) sia lungo la filiera produttiva.

Quindi, cosa alimenta la moda? La moda è prevalentemente fossile, non solo nelle fibre a base di plastica, ma in ogni anello della produzione: dalla lavorazione della materia grezza al prodotto finito.

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D’altra parte, il ciclo produttivo avviene in Paesi che, oltre ad avere scarse o zero tutele verso le lavoratrici e i lavoratori, alimentano le fabbriche a gas, carbone e petrolio. Insomma, i combustibili fossili sono ovunque nel nostro guardaroba, persino nei capi “sostenibili”, come spiego più avanti.

Nei grafici sotto, il mix energetico dei principali Paesi di produzione.

Tratto da “What Fuels Fashion?” .

Solo 4 brand hanno obiettivi ambiziosi

Così, mentre la crisi climatica è sempre più evidente e gli eventi climatici estremi aumentano di frequenza, solo 4 brand su 250 hanno l’obiettivo globale delle Nazioni Unite di ridurre della metà i gas ad effetto serra al 2030. Il che è essenziale per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali (siamo già a +1 °C) .

Eppure, la crisi climatica che si sta abbattendo in maniera ancora più forte nei paesi di produzione, potrebbe cancellare 1 milione di posti di lavoro. «Invece di investire in una transizione equa dai combustibili fossili per alimentare la filiera della moda in modo pulito, i marchi di moda stanno spostando i costi della crisi climatica sulle fabbriche di produzione, scaricando sulle spalle dei lavoratori e sulle comunità la soluzione di un problema che non hanno creato». 

Di seguito i dati emersi dal Report di Fashion Revolution “What Fuels Fashion?” .

Decarbonizzazione solo sulla carta

Quasi un quarto dei più grandi marchi di moda analizzati non rivela nulla sulla decarbonizzazione, cioè sui tempi e modalità del passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili. Il che significa che la crisi climatica per questi marchi non è una priorità. 

Nel frattempo, dei 117 marchi su 250 con obiettivi di decarbonizzazione, 105 divulgano aggiornamenti sui loro progressi, ma 42 marchi segnalano un aumento delle emissioni in ambito 3 (lungo la catena di produzione, dove si concentra il grosso delle emissioni serra). 

Ritardo sul taglio delle emissioni

L’industria della moda è in forte ritardo sugli obiettivi climatici e sulla riduzione delle emissioni. In pratica, l’86% delle aziende non ha un obiettivo pubblico di eliminazione graduale del carbone, il 94% non dichiara nulla rispetto alle energie rinnovabili e il 92% non si esprime sull’uso di elettricità rinnovabile nelle proprie catene di fornitura.

Meno della metà (43%) dei marchi è trasparente sull’approvvigionamento energetico a livello operativo e ancora meno (10%) a livello di catena di fornitura.

Il quantitativo dei vestiti prodotti rimane oscuro

La maggior parte dei grandi marchi di moda (89%) non rivela quanti vestiti produce annualmente.

Non solo, quasi la metà (45%) non dichiara né quanto produce né l’impronta delle emissioni collegate alle materie prime utilizzate. Significa che l’industria del fashion dà priorità allo sfruttamento delle risorse evitando di assumersi le proprie responsabilità per i danni ambientali legati alla produzione.

L’industria della moda vuole avere la botte piena e la moglie ubriaca. 

Vestiti “sostenibili” al carbone

I cosiddetti vestiti “sostenibili” potrebbero essere prodotti utilizzando combustibili fossili. Mentre il 58% dei marchi divulga obiettivi di materiali sostenibili, solo l’11% rivela le fonti energetiche della propria filiera.

Cosa significa? Che i vestiti “sostenibili” potrebbero essere realizzati in fabbriche alimentate da combustibili fossili. 

Finanziamenti, non debiti

I fornitori hanno bisogno di finanziamenti piuttosto che indebitarsiQuasi tutti i grandi marchi di moda (94%) non rivelano quanto stanno investendo nella decarbonizzazione della supply chain.

Solo il 6% dichiara quanto spende. E spesso lo fa contribuendo a fondi per il clima come il Fashion Climate Fund e la Future Supplier Initiative che forniscono prestiti ai fornitori.

Tuttavia, gravare i fornitori di prestiti per soddisfare gli obiettivi climatici dei marchi è ingiusto. Una mossa che perpetua gli squilibri di potere tra i marchi di moda, i loro fornitori e le persone che realizzano i nostri vestiti. 

Investimenti a lungo termine

Gli investimenti a lungo termine sono fondamentali per decarbonizzare le catene di fornitura della modaLa priorità data dal settore al profitto a breve termine è in contrasto con la decarbonizzazione della catena di fornitura.

Una transizione energetica pulita, equa e giusta deve essere guidata dalla moda attraverso relazioni durature con i fornitori e pratiche di acquisto eque.

La classifica dei marchi

Dopo l’accurata analisi della condotta dei marchi rispetto al livello di trasparenza sugli obiettivi, impegni e azioni contro la crisi climatica e la decarbonizzazione, il punteggio medio generale si ferma al 18%.

Sotto la classifica dei marchi con i punteggi di Fashion Revolution.

Marchi con il punteggio più basso nel 2024: 32 grandi marchi hanno ottenuto una valutazione pari a 0%, tra cui: Aeropostale, BCBGMAXAZRIA, Beanpole, Belle, Billabong, Bosideng, Celio, DKNY, Fabletics, Fashion Nova, Forever 21, Heilan Home, KOOVS, Longchamp, Max Mara, Metersbonwe, Mexx, New Yorker, Nine West, Quicksilver, Reebok, Revolve, Roxy, Saks Fifth Avenue, Savage X Fenty, Semir, Smart Bazaar, Splash, Tom Ford, Tory Burch, Van Heusen, Youngor.

Marchi con il punteggio più alto nel 2024: Puma – 75%, Gucci – 74%, H&M – 61%, Champion – 58%, Hanes – 58%, Calzedonia – 52%, Intimissimi – 52%, Tezenis – 52%, Decathlon – 51%, ASICS – 50%, lululemon – 50%, Hermès – 49% e Adidas – 49%. 

Il quadro è desolante eppure, non è tutto perso: «Investendo almeno il 2% dei propri ricavi in energia pulita e rinnovabile, migliorando e supportando i lavoratori, la moda potrebbe contemporaneamente frenare gli impatti della crisi climatica, ridurre povertà e disuguaglianza all’interno delle proprie catene di fornitura. Il crollo climatico è evitabile», afferma Maeve Galvin, Global Policy and Campaigns Director presso Fashion Revolution.

Insieme al Report, Fashion Revolution ha lanciato una campagna per chiedere ai grandi marchi di moda di investire almeno il 2% dei profitti annuali nei paesi dove producono. È essenziale per non scaricare i costi della crisi climatica su chi è più debole e non ne ha nessuna colpa. Per partecipare, segui Fashion Revolution e Fashion Revolution Italia.

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