Nelle fabbriche che producono per Shein c’è ancora lavoro minorile? La risposta è sì e a darla è la stessa Shein, il colosso cinese dell’ultra fast fashion.

La notizia è a pagina 22 del Rapporto sulla sostenibilità e l’impatto sociale del 2023 pubblicato il 22 agosto 2024.

Nel rapporto Shein dichiara di due casi di lavoro minorile nelle fabbriche a contratto dalle quali si rifornisce. La scoperta è arrivata dagli audit sociali, per lo più di agenzie di revisione di terze parti, avvenuti nel corso del 2023.

Poche righe per comunicare un fatto gravissimo. Infatti, parla di due casi sul totale degli audit effettuati, ma senza specificare in quali fabbriche. E non stupisce: infatti, a differenza di altri big del fashion, che stanno tracciando la loro filiera di produzione per renderla più trasparente, Shein non rivela nulla dei suoi fornitori, nemmeno le informazioni di base, come nomi e indirizzi.

Per cui nel caso del lavoro minorile, Schein precisa solo che si è trattato di minori con meno di 16 anni (sotto questa fascia di età, in Cina è vietato il lavoro minorile) e di aver risolto «velocemente i due casi». Cioè: «Dopo aver scoperto queste violazioni, Shein ha sospeso gli ordini e ha avviato delle indagini».

In entrami i casi sono state applicate «misure di rimedio tra cui lo scioglimento dei contratti con i dipendenti minorenni, la garanzia del pagamento di eventuali stipendi in sospeso, l’organizzazione di controlli medici e l’agevolazione del rimpatrio ai genitori/tutori legali, se necessario».

Una volta risolta la situazione «ai produttori a contratto è stato consentito di riprendere l’attività».

I due casi di lavoro minorile sono stati scoperti nei primi 9 mesi del 2023. Shein scrive che nei controlli sull’ultimo trimestre non ci sono stati altri episodi.

Non è la prima volta che Shein rileva casi di lavoro minorile tra i suoi fornitori. Nel 2021 erano l’1,8%, nel 2022 lo 0,3%, nel 2023 <0.1% sul totale degli audit effettuati. Benché in calo, il lavoro minorile è ancora presente tra i suoi produttori a contratto.

«Restiamo vigili nel proteggerci da tali violazioni in futuro, e in linea con le attuali politiche, licenziamo qualsiasi fornitore non conforme». Infatti, da ottobre 2023, Shein ha cambiato politica: invece della sospensione e dei 30 giorni di tempo per adeguarsi al Codice di condotta applicato ai fornitori, ha introdotto l’interruzione immediata dei contratti nei casi di lavoro minorile e di lavoro forzato.

Audit ai fornitori di primo livello

Ma quanti audit sociali sono stati fatti? Shein fa sapere che nel 2023 sono stati condotti complessivamente 3.990 audit in loco su fornitori con sede in Cina. Il 92% sono stati fatti da agenzie di revisione terze. Le fabbriche coinvolte sono state 2.796 «che rappresentano il 95% dei prodotti a marchio Shein in base al valore di approvvigionamento del 2023». Le restanti 625 riguardavano fornitori di tessuti, imballaggi e subappaltatori di prodotti finiti.

La rete di approvvigionamento di Shein, però, è più ampia. Infatti, il colosso dell’ultra fast fashion dichiara circa 5.800 fornitori, 400 in più rispetto al 2022.

Fabbriche a contratto che forniscono il prodotto finito a marchio Shein. Si tratta quindi solo dei fornitori di primo livello (Tier 1). E proprio su questi si sono concentrate le verifiche. Senza contare che gli audit non sempre costituiscono una garanzia sulle reali condizioni del lavoro, come dimostra un report della Clean Clothes Campaign.

Riguardo poi ai livelli più profondi della filiera: taglio e ricamo, tessitura e tintura, coltivazione, produzione della fibra, il buio regna sovrano. Cosa avviene in queste fabbriche? Il problema non è solo di Shein, ma della maggior parte delle multinazionali della moda che non tracciano e non rendono trasparente l’intera filiera di produzione. Ma la catena di fornitura dell’ultra fast fashion è ancora più oscura.

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In una industria della moda iperglobalizzata, dove i grandi brand non posseggono più il becco di una fabbrica e producono dove la manodopera costa poco e ha poche o zero tutele, il lavoro minorile e il lavoro forzato si annidano in ogni angolo della filiera.

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Shein negli ultimi anni è stata oggetto di diverse indagini riguardo alle condizioni di lavoro con turni anche oltre 75 ore alla settimana.

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La seconda indagine di Public Eye

A maggio 2024 Public Eye, associazione svizzera a difesa dei diritti umani, ha pubblicato una seconda indagine sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche che producono per Shein. Dopo l’inchiesta del 2021 i suoi investigatori sono tornati nella grande area di Guangzhou, nella Cina meridionale, dove si trova il grosso dei fornitori di Shein.

Sono riusciti ad intervistare 13 lavoratrici e lavoratori in 6 fabbriche.

Purtroppo, le condizioni non sono cambiate: orari di lavoro illegali e salari a cottimo continuano ad essere la norma.

Minori negli stabilimenti di produzione

La seconda indagine di Public Eye è avvenuta nel 2023 a fine estate, quindi con le scuole chiuse. «Si potevano vedere bambini piccoli e ragazzi nei laboratori. Spesso si faceva babysitter sul posto di lavoro, soprattutto nelle piccole aziende non regolamentate», scrive Public Eye.

«Gli adolescenti, che secondo le stime degli investigatori avevano 14 o 15 anni, svolgevano compiti semplici, come imballare, o sedevano alle macchine da cucire, istruiti dai genitori, presumibilmente per imparare il mestiere. Non è chiaro se fossero pagati per questo», precisa l’Associazione svizzera.

Nella risposta  all’indagine Shein ribadisce “tolleranza zero” al lavoro minorile oltre a proibire la presenza di minori negli stabilimenti di produzione. In più, promette di finanziare 25 asili nido quest’anno, oltre ai 10 dell’anno scorso.  

Allora, solo due casi di lavoro minorile nel 2023 come dice Shein? Dopo l’indagine di Public Eye qualche dubbio in più sorge spontaneo.

Shein, gas serra triplicati in 3 anni

Nel Report di sostenibilità 2023 Shein riporta i dati sull’impronta di carbonio. Ebbene, le emissioni di gas serra sono aumentate di oltre l’80% in un anno. Non solo, sono anche triplicate in tre anni, come osserva Bof. Tanto che Shein ora risulta essere il più grande emettitore di gas serra di qualunque altra multinazionale della moda, superando anche Inditex, casa madre di Zara.

Shein scrive che il grosso delle emissioni è nella catena di fornitura. Infatti, sono quasi raddoppiate sul 2022 arrivando a oltre 10 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente.

In più, sono più che raddoppiate anche le emissioni dovute al trasporto e ai resi delle sue merci che viaggiano in aereo in 150 Paesi del mondo: in 12 mesi sono schizzate a più di 6 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente.

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Shein ha dichiarato di aver presentato gli obiettivi di riduzione delle emissioni in linea con la Science-Based Targets Initiative, la principale iniziativa globale che guida le aziende verso la riduzione significativa e scientificamente fondata delle emissioni di gas serra. Il piano è in attesa di convalida.

Insomma, gli eventuali futuri azionisti di Shein (se e quando il Gruppo riuscirà a quotarsi in borsa), hanno di che riflettere.

Lo stesso per chi acquista, come se non ci fosse un domani, sulla sua piattaforma.

Un domani che rischiamo di non avere a causa di ritmi di produzione forsennati, basati sullo sfruttamento umano e ambientale, oltre che sull’iperconsumo.

Foto di apertura © Panos Pictures / Public Eye

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