Indietro

Greenwashing nella moda. Sfondo verde pennello con vernice verde. In primo piano manichino verde con la scritta fashion
Facebook
X
Pinterest
WhatsApp

Una lettera aperta contro il greenwashing nella moda dalle autorità di controllo

Il greenwashing nella moda non si arresta: 20 autorità di controllo lanciano un appello al settore. Sentenza contro Adidas sulla “neutralità climatica al 2050”.

Il greenwashing nella moda è un tema sempre più sotto i riflettori, sia per le autorità di controllo sia per i consumatori. Per questo, l’International Consumer Protection and Enforcement Network (ICPEN) ha indirizzato una lettera aperta al settore della moda e del tessile, richiamando l’importanza di rispettare le normative a tutela dei consumatori quando si fanno affermazioni ambientali.

L’ICPEN è una rete globale che riunisce oltre 70 autorità nazionali impegnate nella difesa dei diritti dei consumatori. La lettera è stata firmata da 20 enti di controllo, anche europei: tra questi Francia, Belgio, Spagna, Ungheria e Norvegia.

Cos’è il greenwashing?

Il greenwashing è una pratica commerciale scorretta, usata per far sembrare un prodotto o servizio più ecologico di quanto lo sia in realtà. Nella moda è particolarmente diffuso, con dichiarazioni vaghe, non dimostrate o sopravvalutate. Secondo un’indagine della Commissione europea, il settore dell’abbigliamento e tessile è quello che fa maggior uso di affermazioni ambientali false o scorrette.

Poiché l’industria tessile e abbigliamento è tra le più inquinanti, le aziende di moda non possono sbandierare affermazioni ecologiche alla leggera. Quelle che lo fanno danneggiano i consumatori e le imprese impegnate seriamente verso la transizione ecologica.

Leggi anche: Greenwashing nella moda: cosa si cela dietro le etichette di sostenibilità

La diffidenza dei consumatori verso le dichiarazioni ambientali è alta. In Italia, secondo un sondaggio Ipsos, il fenomeno del greenwashing viene percepito dal 54% degli italiani come pratica diffusa nelle aziende.

Inoltre, 1 italiano su 3 ritiene che le aziende virtuose in Italia siano meno del 30%.

Le imprese sospettate di affermazioni ambientali false vengono boicottate dal 15% degli intervistati, percentuale che sale al 33% nella fascia di età tra i 18 e 24 anni.

Il richiamo dell’ICPEN

Con questa iniziativa, l’ICPEN mette in evidenza principi già condivisi da molte legislazioni nazionali. Il messaggio alle aziende è chiaro: le affermazioni ambientali devono essere vere, trasparenti e supportate da prove solide. L’obiettivo è favorire scelte di consumo più consapevoli, stimolando l’innovazione e gli investimenti in soluzioni realmente più pulite e innovative.

I punti chiave della lettera:

  • Veridicità e chiarezza: le dichiarazioni devono evitare termini generici come “eco-friendly”, “sostenibile”, “responsabile” se non sono accompagnati da dati concreti.
  • Prove a supporto: è essenziale dimostrare ogni affermazione ambientale con prove, considerando l’intero ciclo di vita del prodotto.
  • No ad affermazioni fuorvianti: anche simboli e immagini devono essere coerenti con dati reali.
  • Certificazioni: devono essere utilizzate correttamente e spiegate chiaramente.
  • Trasparenza sul futuro: è preferibile comunicare azioni concrete in corso o già adottate, invece di promesse vaghe su obiettivi futuri.

Esempio diffuso di greenwashing nel fashion

Tra gli esempi di greenwashing citati nella lettera, uno dei più frequenti riguarda la riduzione delle emissioni di gas serra. Nelle loro comunicazioni, in genere, le aziende si riferiscono alla riduzione delle emissioni generate dalle loro operazioni dirette o controllate (scope 1); e a quelle indirette dovute all’acquisto di energia (scope 2). Una comunicazione a dir poco parziale, visto che si tralasciano le emissioni serra generate lungo la catena del valore (scope 3).

In pratica, poco o nulla dicono delle emissioni di CO2 che riguardano la filiera di approvvigionamento: eppure nel settore del tessile e moda rappresentano il grosso delle emissioni di gas serra. E non potrebbe essere altrimenti, visto che le produzioni di abbigliamento, scarpe e accessori sono delocalizzate in Paesi in cui le fabbriche vanno a gas, petrolio e carbone.

Leggi anche: L’industria della moda è fossile e va a tutto gas serra

Ogni dichiarazione di riduzione delle emissioni ad effetto serra dovrebbe specificare chiaramente se include tutte le emissioni oppure no. In caso contrario, si rischia di ingannare i consumatori.

Greenwashing: Adidas e la “neutralità climatica”

Proprio sulle dichiarazioni di riduzione delle emissioni è inciampata Adidas. Infatti, non potrà più dichiarare che sarà “climaticamente neutra entro il 2050”, come affermava nella pagina dedicata alla “sostenibilità” del suo sito aziendale. Il divieto è arrivato da una sentenza del 25 marzo 2025 del tribunale regionale di Norimberga-Fürth a seguito della causa intentata da Environmental Action Germany (DUH), associazione senza scopo di lucro per la tutela dell’ambiente e dei consumatori.

La motivazione? L’azienda non ha chiarito se intende raggiungere l’obiettivo di “neutralità climatica” solo riducendo le proprie emissioni o anche tramite compensazioni, ad esempio acquistando certificati di energia verde.

Tali informazioni erano contenute nel report di sostenibilità 2023, ma non erano esplicitamente indicate nella comunicazione pubblicitaria, risultando dunque fuorvianti. La Corte ha dichiarato che la frase sulla “neutralità climatica” dava l’impressione che l’obiettivo sarebbe stato raggiunto unicamente con la riduzione delle emissioni.

La sentenza non è ancora definitiva, poiché Adidas può presentare ricorso.

In conclusione

Caso Adidas a parte, la realtà è che nessuna azienda nella pratica può azzerare completamente le emissioni di gas serra: una parte residua dovrà sempre essere compensata. Per questo è fondamentale dichiarare in modo trasparente quanto si intende ridurre effettivamente e quanto compensare, con piani concreti, intermedi e scientificamente validati.

In pratica, un conto è impegnarsi nella riduzione dei gas climalteranti, un altro è affidarsi ai sistemi di compensazione in tutto o in una buona parte.

Ad ogni modo, qualsiasi affermazione ecologica, dall’impatto sul clima al consumo d’acqua, deve essere supportata da prove verificabili. Su questo punto la Direttiva Ue contro il greenwashing (“Empowering consumers for the green transition”) è molto chiara. L’obiettivo è quello di proteggere i consumatori dalle pratiche di marketing ingannevoli ed essere un supporto nelle scelte di acquisto.

La direttiva entrerà in vigore il prossimo anno e sarà integrata dalla norma Green Claims, sulle dichiarazioni verdi, più specifica, ma ancora in discussione.

Intanto, a vigilare sulle pratiche pubblicitarie ingannevoli ci sono le autorità e le legislazioni nazionali, che già adottano molti divieti previsti nella direttiva dell’Unione europea.

Potrebbero interessarti

Mondo Brand

Prossimi appuntamenti

Seguimi sui Social

Non perderti nulla

Iscriviti alla newsletter mensile di Fattidistile.

Le rubriche

Potrebbero interessarti

Non perderti nulla

Iscriviti alla newsletter mensile di Fattidistile. Riceverai notizie, consigli e approfondimenti sulla moda circolare e sostenibile.