Cosa nascondono le vetrine scintillanti della fast fashion, della moda usa e getta? Quelle delle catene di abbigliamento a produzione continua, capaci di fornire fino a 52 collezioni all’anno. Capi venduti a basso prezzo per invogliare all’acquisto, allo shopping inutile e impulsivo. Come è possibile una produzione di questo tipo? Tutto è spiegato nel docufilm “Le ali non sono in vendita. Viaggio nel labirinto della fast fashion”, regia di Paolo Campana con la supervisione artistica di Sara Conforti. Il film documentario è visibile gratuitamente su Streeen.org o dal sito della Campagna Abiti Puliti. Nella foto in alto, una scena del film.
Sulle ali di Icaro nel labirinto della fast fashion
E’ un vero e proprio labirinto quello creato dal fast fashion. La vita è imbrigliata, è costretta. L’ambiente è inquinato, i lavoratori delle catene di produzione sono sfruttati, i consumatori sono inconsapevoli e incapaci di scegliere. Il mondo del fast fashion non dorme mai, si lavora a ciclo continuo. Con ritmi massacranti sia nei luoghi di produzione che nei punti vendita, sempre aperti.
Il docufilm è prodotto da Fair, cooperativa equosolidale, in collaborazione con hòferlabproject, un progetto impegnato nella promozione della sostenibilità della moda. L’opera è frutto di un percorso sperimentate, di arte e attivismo, che ha coinvolto per oltre un anno gli studenti di moda. I futuri designer. A parlare è la loro arte con il supporto di interviste ad esperti, infografiche e testimonianze dirette.
L’arte è nelle ali ricavate da scarti di tessuto nero che gli stessi studenti hanno realizzato. Ma sono ali imbrigliate, incapaci di volare. Sono giovani prigionieri. Sono come Icaro nel labirinto creato dal padre Dedalo. Ed è al mito che il film ricorre.
Dopo un lungo sonno Dedalo si sveglia prigioniero del labirinto che lui stesso ha costruito, impigliato con Arianna in un filo rosso con cui il Minotauro lega a sé le persone. Addolorato per la perdita del figlio Icaro, Dedalo decide di cercarlo nel mondo contemporaneo dominato dai brand e dal consumo sfrenato di abiti.
Prezzi bassi: sfruttamento assicurato
Perché questo consumo sfrenato di abiti? La leva principale è il basso costo. Come mai? Semplice, la manodopera viene pagata pochissimo. “La produzione – spiega nel docufilm Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti – avviene attraverso filiere lunghissime da fornitori sparsi in tutto il mondo, in fabbriche dove lavorano milioni di persone. I fornitori, a loro volta, possono appaltare ad altre fabbriche in una sorta di corsa al ribasso. Più si scende nella catena di produzione più le condizioni di vita dei lavoratori peggiorano”. Così impera lo sfruttamento salariale con paghe di 1/4 o 1/5 del dovuto. Le vittime sono soprattutto le donne, l’85% della forza lavoro. Donne spesso sottoposte a forme di violenza pisicologica, fisica, abusi e violenze anche sessuali.
“Lavoravo più di 400 ore al mese per un guadagno di 6 dollari. Avevo 12 anni. Abusi fisici, botte per ogni minimo errore o cedimento. Non avevamo voce”. Racconta Kalpona Aketer, oggi direttrice esecutiva del Bangladesh Center for Workers Solidarity. E’ diventata attivista “perché volevo cambiare la mia vita e quella delle mie compagne di lavoro”.
Il disastro del Rana Plaza
Nel film Kalpona Aketer ripercorre il disastro del crollo del Rana Plaza del 24 aprile 2013. “Il Rana Plaza era un edificio di 9 piani con all’interno 5 fabbriche. Ci lavoravano 5000 persone. Le lavoratrici avevano visto delle crepe nell’edificio e si rifiutavano di entrare. I proprietari però le ricattarono, intimandole di entrare altrimenti non le avrebbero pagate”. Il risultato? 1138 morti e altre 1000 persone invalide a vita.
Dopo questa tragedia qualcosa è cambiato. “C’è stato un accordo significativo per rendere più sicure le fabbriche. Oggi possiamo dire che ci sono 2,2 milioni di lavoratori in 1.600 fabbriche che lavorano in condizione di sicurezza”. Sono 200 i marchi che hanno aderito al Bangladesh Accord, fra cui H&M, C&A, Zara, Benetton.
L’impatto ambientale
La filiera della moda è al 2° posto per impatto ambientale dopo il settore dei trasporti: depauperamento delle risorse naturali, emissioni di CO2, inquinamento. Solo per produrre un paio di jeans servono 7.500 litri di acqua, mentre per una maglietta ce ne vogliono 2.700. L’industria della moda fa ampio utilizzo della chimica, basti pensare ai coloranti e ai solventi necessari per far aderire il colore alla fibra. Poi c’è il problema dei rifiuti generati durante la produzione, dell’invenduto e quello degli indumenti usati aumentati a livello esponenziale a causa del continuo ricambio. Dal 1996, a seguito del repentino calo dei prezzi, solo in Europa gli acquisti sono aumentati del 40%. Ben poco viene recuperato.
Roberto Cavallo, Ceo di Erica soc.coop, racconta dell’esportazione degli abiti usati in Bangladesh, Egitto, Tunisia: “L’usato viene ulteriormente selezionato. Una parte viene riutilizzata e un’altra abbandonata in discariche abusive, nelle periferie delle grandi città, bruciato lungo i marciapiedi delle strade. In discarica gli abiti vanno in putrefazione, si genera metano e vanno a fuoco”. Un inferno.
Responsabilità e trasparenza
I marchi debbono essere responsabili di ciò che producono e devono essere trasparenti rispetto alla filiera di produzione.
La strada è quella della sostenibilità, dell’etica e della circolarità della moda. Un abito o un capo di abbigliamento deve durare il più a lungo possibile. Deve essere pensato in un’ottica circolare, tenendo conto dell’intero ciclo di vita: eco-design, rigenerazione, riuso.
Una moda trasparente per fare acquisti consapevoli. Essere liberi di scegliere, di comprare o no, di privilegiare un brand piuttosto che un altro. E non cedere ad una inconsapevole e rovinosa caduta per aver assecondato un sistema assurdo che mette avanti il profitto sui diritti dei lavoratori, sulla salute, sul rispetto dell’ambiente.