Articolo aggiornato il 19/06/2025
Si è detto molto sulla legge “anti-fast fashion” francese, ma come è andata a finire? Dopo oltre un anno dall’approvazione all’Assemblea Nazionale, il 10 giugno scorso il Senato francese ha votato il disegno di legge contro l’impatto ambientale dell’industria tessile. Ma la partita non è ancora chiusa: il testo modificato dovrà tornare in autunno davanti a una commissione mista e ottenere il via libera della Commissione europea.
Ad ogni modo, il disegno di legge approvato in Senato non si rivolge alla generalità del fast fashion, ma prende di mira l’ultra fast fashion. In pratica, bersaglio della normativa diventano marchi come Shein e Temu, mentre restano esclusi giganti della moda veloce “tradizionali” come Zara, H&M, Primark, Kiabi o Decathlon.
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Tra gli obblighi per i marchi della moda ultra veloce ci sono quello di informare gli utenti sull’impatto ambientale e sociale dei loro prodotti, un eco-contributo che salirà fino a 10 euro nel 2030, il divieto di pubblicità anche da parte di influencer, oltre a una tassa sulle piccole spedizioni provenienti da paesi extra Ue.
Fast fashion fuori dal mirino
Il disegno di legge iniziale, approvato il 14 marzo 2024 dall’Assemblea Nazionale, prendeva di mira tutta la moda veloce. Ma il Senato ha modificato l’ambito d’applicazione per proteggere i marchi tradizionali francesi ed europei, giudicati “motori delle economie locali”, come dichiarato dalla senatrice Sylvie Valente Le Hir a Le Parisien .
Nella nuova versione della legge si afferma che l’obiettivo è colpire «la moda ultra-veloce, che si distingue dalla classica moda veloce per la sovrapproduzione e l’eccessivo consumo, incompatibili con gli obiettivi di sostenibilità ambientale».
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Le critiche della società civile
Secondo la coalizione Stop Fast Fashion — che riunisce 13 organizzazioni tra cui Fashion Revolution France, Zero Waste France e Les Amis de la Terre — restringere la portata della legge a soli due marchi non permette di rispondere ai problemi sistemici dell’industria della moda. La richiesta era di definire come fast fashion tutti i brand che propongono più di 10.000 nuovi articoli l’anno.
Brand come «Zara e H&M propongono 500 nuovi modelli a settimana. Sono certamente meno dei 7.000 articoli giornalieri di Shein, ma sono comunque troppi. Ecco perché il testo dei senatori, prendendo di mira solo Shein e Temu, manca completamente l’obiettivo iniziale di ridurre l’impatto ambientale del tessile», ha dichiarato in una intervista a Reporterre Pierre Condamine, responsabile della campagna contro la sovrapproduzione di Les Amis de la Terre.
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Inoltre, la Coalizione contesta la visione “positiva” della fast fashion sul territorio: sono proprio le grandi catene ad aver causato la chiusura di molti negozi indipendenti, impoverendo il tessuto commerciale locale.
I numeri della moda usa e getta in Francia
Il consumo di fast fashion in Francia è un chiaro esempio del dilagare della moda usa e getta.
Il fenomeno della moda veloce in Francia è in crescita costante. Tra il 2010 e il 2023, i capi immessi sul mercato sono aumentati da 2,3 a 3,2 miliardi (+39%), pari a oltre 48 articoli a testa all’anno. Il 70% proviene dal Sud-est asiatico, dove i lavoratori operano in condizioni di sfruttamento.
Ogni anno in Francia vengono buttate via 600.000 tonnellate di tessili, l’equivalente di 35 capi al secondo. Questo modello ha portato al declino l’industria tessile francese, con oltre 300.000 posti di lavoro persi dagli anni ’90, anche molto prima dell’arrivo di Shein.
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Ultra-fast fashion: come verrà definita
La legge approvata dal Senato non stabilisce criteri precisi per distinguere fast da ultra-fast fashion. Ma la norma si rivolge specificatamente ai nuovi entranti nel mercato dell’abbigliamento, che contano su un rinnovo estremamente veloce delle collezioni.
Infatti, la distinzione dovrebbe basarsi sulla rapidità di rinnovo delle collezioni e sulla quantità di nuovi modelli, più che sul numero totale di articoli.
Una definizione è comunque presente nel testo:
«La moda ultra-rapida comprende le pratiche industriali e commerciali che comportano una riduzione della durata di utilizzo dei capi, dovuta all’immissione continua di nuovi prodotti e alla scarsa propensione alla riparazione».
In effetti, se un indumento è costato molto poco difficilmente ci sarà la propensione a ripararlo.
Ad ogni modo, è specificato che le soglie quantitative dei nuovi prodotti e i criteri relativi al basso incentivo alla riparazione saranno stabiliti con decreto.
I nuovi obblighi per i marchi ultra-fast fashion
Il disegno di legge approvato in Senato, pressoché all’unanimità, prevede una serie di obblighi di una certa rilevanza e trasparenza a favore dei consumatori. Per essere esecutivi, però, ci sarà bisogno di alcuni decreti.
- Messaggi obbligatori sui siti e-commerce per promuovere il riuso (come il second hand e il noleggio) la riparazione e il riciclo dei capi, con informazioni sull’impatto ambientale e sociale dei prodotti e delle spedizioni. I messaggi dovranno essere ben visibili accanto al prezzo.
- Indicazione chiara dell’origine geografica del prodotto, con caratteri della stessa dimensione del prezzo.
- Divieto di pubblicità (anche tramite influencer) per capi, calzature biancheria per la casa la cui produzione eccessiva è incompatibile con la tutela ambientale.
- Eco-contributo ambientale: da almeno 5 euro a capo nel 2025, fino a 10 euro nel 2030. L’importo sarà modulato in base all’impatto ambientale e non potrà superare il 50% del prezzo del prodotto.
- Tassa extra-UE: da 2 a 4 euro per ogni pacco sotto i 2 kg proveniente da piattaforme esterne all’Unione europea.
Cosa succede ora
Il disegno di legge anti-fast fashion, o meglio ultra fast-fashion, dovrà ora essere rivisto da una commissione mista tra Senato e Assemblea Nazionale, per arrivare una versione definitiva. Dopodiché, la legge passerà all’esame della Commissione europea, che avrà dai 3 ai 4 mesi per dare un parere.
Se tutto andrà secondo i piani, la legge entrerà in vigore nel 2026.
Un passo avanti, ma la strada è ancora lunga
Sebbene la portata della legge sia stata ridotta in sostanza all’ultra-fast fashion, resta un segnale importante: la politica inizia finalmente a occuparsi dei danni ambientali e sociali dell’industria tessile. È un primo passo verso una produzione e un consumo più responsabili.
Ma non possiamo aspettare solo le leggi. Tutti possiamo prenderci cura di ciò che già abbiamo, comprare meno e meglio, scegliere abiti di qualità (secondo le proprie possibilità) e dare una seconda vita ai capi, attraverso il second hand, lo scambio, il noleggio, o semplicemente riparandoli.
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Anche così si costruisce una moda più giusta.