Le microplastiche fanno male all’ambiente e sono molto rischiose per la salute umana. Le evidenze scientifiche parlano chiaro. Eppure i principali marchi di moda globali ci stanno sommergendo di vestiti di plastica e di microplastiche.
Infatti, invece di ridurre l’uso di fibre sintetiche le stanno aumentando. Lo rivela la nuova indagine di Changing Markets Foundation “Fashion’s Plastic Paralysis: How Brands Resist Change and Fuel Microplastic Pollution“.
L’organizzazione no profit con sede in Svizzera, in collaborazione con Fashion Revolution, Clean Clothes Campaign, No Plastic in My Sea e Plastic Soup Foundation, ha inviato un questionario a 50 marchi e rivenditori per conoscere il loro utilizzo di fibre sintetiche e le strategie per affrontare l’inquinamento da microplastiche.
I marchi coinvolti vanno dal fast fashion al lusso e coprono un’ampia fetta di mercato con una capitalizzazione combinata di oltre 1 trilione di dollari.
Fibre sintetiche: brand poco trasparenti sui dati
I risultati del report non sono buoni, anzi peggiori rispetto alle due indagini precedenti di Changing Markets Foundation.
I brand sono ancora più opachi nel rivelare i dati sull’uso dei sintetici utilizzati. La scarsa trasparenza regna sovrana tanto che solo 16 brand hanno rivelato i volumi di fibre sintetiche impiegate. Non pervenuti quelli di marchi come Adidas, Bonprix, Burberry, H&M Group, Primark, Uniqlo (Fast Retailing) e Shein.
Inoltre, 30 marchi su 50 (60%) non hanno fornito informazioni o hanno fornito solo dati parziali sui volumi dei sintetici e la loro percentuale sul mix totale di fibre. Questo gruppo include marchi e rivenditori di alto profilo con quote di mercato significative, come Abercrombie & Fitch, Gap Inc., Kering Group, LVMH, Patagonia e Walmart.
Ad ogni modo, 11 marchi su 23, che hanno risposto al questionario, hanno aumentato l’impiego di fibre sintetiche: poliestere, nylon, acrilico ed elastan. Chi sono? Benetton Group, Bonprix, Boohoo, C&A, Esprit, H&M Group, Hugo Boss, Inditex, PVH, Reformation e Zalando.
Solo due marchi hanno preso impegni di eliminare i sintetici entro il 2030.
In base alle risposte ricevute e alle informazioni pubbliche reperibili, Changing Markets Foundation ha classificato i brand in 4 gruppi: “leader il cambiamento”, “può fare meglio”, “indietro” e i marchi in “zona rossa”.
Chi sta guidando il cambiamento
I brand che stanno guidando il cambiamento sono due, ma non senza contraddizioni.
Il primo è il marchio californiano Reformation, il più drastico sull’eliminazione delle fibre sintetiche. L’obiettivo è quello di ridurle a meno dell’1% entro il 2025 e di eliminarle completamente, anche quelle riciclate, entro il 2030. L’impegno riguarda l’abbigliamento che richiede maggiori frequenze di lavaggio, come vestiti, top e pantaloni. Peccato però che dal 2022 al 2024 Reformation ha aumentato del 61% il volume del materiali sintetici impiegati.
Il secondo brand è il tedesco Hugo Boss. Nel suo caso si tratta di eliminare il poliestere e la poliammide (nylon) entro il 2030. Anche Hugo Boss ha aumentato del 143% l’uso di materiali sintetici dal 2020 al 2023.
Quasi tutti i marchi indagati (45 su 50) rimangono nelle categorie più basse. Sono “indietro” i marchi con una trasparenza limitata o con l’impiego di fibre sintetiche in crescita. Si tratta di Asda, Benetton Group, Bonprix, C&A, Esprit, H&M Group, Inditex, Lindes, Mango, New Look, Next, Primark, PVH, Sainsbury’s, Tesco e Zalando.
In “zona rossa” diversi big del fashion
Nella “zona rossa” ci sono ben 29 marchi (più della metà) per l’assenza di trasparenza e per la pesante dipendenza dalle fibre fossili. Sono marchi fast fashion, marchi sportivi e del lusso, tra i quali Patagonia, Adidas, Boohoo, Burberry, LVMH, Shein e Walmart. Alcuni di questi brand, precisa nel Report Changing Market Foundation, sono stati inseriti tra i peggiori, non tanto per il quantitativo di sintetici utilizzati, quanto per la scarsa trasparenza sui volumi e percentuali di impiego.
Solo tre aziende (6%) sono nell’area “potrebbe fare meglio” per il buon livello di trasparenza e per il basso uso di sintetici nelle loro collezioni. Si tratta di Dressmann, G-Star Raw e Levi Strauss & Co.
Fibre sintetiche: chi ne usa di più
Ma quali sono i marchi che fanno più uso di fibre sintetiche? La classifica cambia se si considera la percentuale sul resto delle fibre utilizzate oppure il volume dei sintetici impiegati.
Si tratta di due dati essenziali che insieme danno un quadro complessivo della situazione. Proprio per questo sono numeri che i brand sono restii a dare o li danno solo in parte.
A Inditex, casa madre di Zara, va il merito della trasparenza sui dati. Non è il caso di Shein, il colosso dell’ultra fast fashion cinese che invece fornisce solo un dato in percentuale.
Quindi in vetta alla classifica dei marchi che utilizzano maggiori volumi di tessuti sintetici c’è Inditex con 212,89 tonnellate. Il dato segna più 20% tra il 2022 e il 2024 con una crescita del poliestere del 26%.
Al secondo posto con volumi ben inferiori PVH Corp. , proprietaria dei marchi Kalvin Clein e Tommy Hilfiger, quindi parliamo di marchi di fascia alta. Al terzo posto si piazza la moda a basso costo di C&A.
Con tutta probabilità la vetta sui volumi di materiali sintetici spetterebbe a Shein visto che sta dominando il mercato del fast fashion, ma il dato sul volume utilizzato di sintetici non lo rivela.
In compenso Shein si aggiudica il primo posto in termini percentuali con l’81.2% di sintetici sul totale delle fibre utilizzate. Seguono Boohoo con 69% (nel 2022 era al 64%), e Lululemon con il 67%.
Perché i principali marchi di moda puntano sulle fibre sintetiche
Le fibre sintetiche sono versatili e molto economiche. Un kg di poliestere, ad esempio, costa la metà rispetto a un kg di cotone. Tant’è che oggi il poliestere ha una quota di mercato del 59% rispetto a tutte le altre fibre ed il suo uso è previsto in crescita.
Più in generale, le fibre sintetiche rappresentano oltre due terzi della produzione dei tessuti (69%) e nel 2030 si prevede raggiungano il 73%.
Una crescita alimentata dalla fast fashion basata su cicli di produzioni e consumi spropositati.
Così cresce l’inquinamento da microplastiche causato dalle fibre sintetiche, plastica a tutti gli effetti essendo un prodotto derivato da petrolio e gas. Uno studio stima che l’industria dell’abbigliamento solo nel 2019 abbia generato 8.3 milioni di tonnellate di inquinamento da plastica, cioè il 14% rispetto a tutti i settori che fanno ampio uso di plastica, come gli imballaggi e l’edilizia.
Poliestere: la fibra a più alte emissioni di gas serra
Proprio perché sono prodotte da fonti fossili, le fibre sintetiche sono collegate alla crisi climatica. Un recente studio Textile Exchange ha rivelato che il poliestere rilascia più gas serra rispetto a tutte le altre fibre.
Le 47 milioni di tonnellate di poliestere prodotte nel 2022 ha generato 125 milioni di tonnellate di CO2, cioè l’equivalente delle emissioni annuali di 32 centrali elettriche a carbone.
Fibre sintetiche riciclate
La stragrande maggioranza dei brand interpellati si sta orientando verso materiali sintetici riciclati, in particolare il poliestere riciclato dalle bottiglie di PET. Tuttavia, ciò non risolve il problema del rilascio di microplastiche e, in più, è di grande ostacolo al riciclo da bottiglia a bottiglia, come dovrebbe essere in un sistema circolare.
La sfida, come ricorda lo studio di Textile Exchange “The Future of Synthetics”, è dare la priorità al riciclo da fibra a fibra e non trasformare bottiglie in filato.
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Microplastiche e salute
Tutto questo ha enormi ripercussioni sull’inquinamento ambientale, ma anche sulla salute umana. Le microplastiche rilasciate durante la produzione e a seguito dei lavaggi domestici si disperdono nell’aria, nell’ambiente, nelle acque. Entrano nella catena alimentare e ce le ritroviamo nel piatto.
Tant’è che le microplastiche sono state trovate nel sangue, nei tessuti celebrali, nei polmoni, nelle feci, nella placenta.
Una volta entrate nell’organismo le microplastiche si accumulano e possono stimolare infiammazioni, alterazioni cellulari e genotossicità. Tutto ciò può causare conseguenze gravi, tra cui cancro, problemi riproduttivi, di sviluppo, respiratori e digestivi, obesità, diabete.
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Per la prima volta, uno studio italiano ha dimostrato una correlazione tra la presenza di microplastiche nelle placche aterosclerotiche, nei depositi di grasso nelle arterie, e un maggior rischio di infarto e ictus.
Fibre sintetiche e microplastiche: cambierà qualcosa in futuro?
Oltre 30 progetti di legge entreranno in vigore a livello globale nei prossimi anni, tra cui un Trattato delle Nazioni Unite sull’inquinamento da plastica previsto per la fine dell’anno. L’Unione europea con la Strategia per i prodotti tessili sostenibili e circolare ha promesso di aumentare la qualità dell’abbigliamento, ridurre gli sprechi e l’inquinamento, contrastare il greenwashing e il consumo eccessivo. L’Ue ha dichiarato fuori moda la fast fashion entro il 2030.
E i brand cosa stanno facendo? L’atteggiamento generale è quello di continuare «a scommettere molto sulle fibre di plastica, mostrando poca intenzione di cambiare e ricorrendo a tattiche prese in prestito dall’industria dei combustibili fossili per distrarre e ritardare i veri progressi» afferma Urska Trunk, responsabile senior della campagna contro la moda fossile.
Tra i brand c’è chi si appella alla necessità di modelli di misurazione standardizzati, chi invece è impegnato nello sviluppo di nuove tecnologie per eliminare le microplastiche durante i processi produttivi, chi si limita a spostare il problema sui consumatori invitandoli a dotarsi di filtri antimicroplastiche da inserire nelle lavatrici.
Il fatto è che finché non ci saranno regole chiare, le grandi multinazionali della moda si impegneranno, se lo riterranno, solo in azioni volontarie.
È essenziale, come è indicato nel report, che le aziende intervengano innanzitutto sui volumi di produzione, abbassandoli. Altrimenti, non c’è nessuna azione lodevole degna di nota.
Ecco perché la trasparenza dei dati è essenziale.
Foto di apertura: Canva