Hai saputo? Il colosso svedese del fast fashion H&M è stato accusato di greenwashing. Cioè di quell’ecologismo di facciata che ti fa credere che un prodotto ha un impatto ambientale ridotto rispetto a un altro. E tu sei anche felice di pagarlo di più almeno fino a quando non scopri l’inganno.
Il caso di H&M si preannuncia molto serio perché si tratta di una class action, di un’azione legale collettiva.
Chi ha accusato H&M di greenwashing
Ad intentarla un’unica persona in rappresentanza di tutti coloro che hanno subito lo stesso torto. La querelante è una donna residente negli Stati Uniti che, lo scorso 22 luglio, ha presentato ricorso contro H&M presso la Corte Federale di New York. La querelante è Chelsea Commodore e, ironia della sorte, è studentessa di marketing all’Università Suny New Paltz.
Il motivo dell’azione? «L’etichettatura, il marketing e la pubblicità di H&M sono progettati per fuorviare i consumatori sulle caratteristiche ambientali dei suoi prodotti, utilizzando anche dati falsi». Sul sito classaction.org puoi leggere il ricorso completo.
I prodotti in questione riguardano la collezione Conscious Choice, una linea di capi «creati con maggiore attenzione per il pianeta», rispetto agli altri prodotti del brand. Tanto che H&M dichiara che si tratta di prodotti realizzati con «almeno il 50% di materiali sostenibili, ma che in molti casi raggiungono anche percentuali maggiori».
Per rafforzare questa tesi l’Azienda ha deciso di condividere con la sua clientela i punteggi sulle performance ambientali dei suoi prodotti Conscious. Così, i capi di questa collezione sono stati accompagnati da un profilo di sostenibilità e messi online negli Stati Uniti e in Europa. I dati ambientali riguardavano gli impatti dei tessuti utilizzati sul consumo di acqua, le emissioni di anidride carbonica, l’inquinamento e il consumo di combustibili fossili.
H&M e i profili di sostenibilità dei suoi vestiti
I dati dei profili di sostenibilità, sono stati ricavati dall’Higg Sustainability Profiles. Si tratta di un Indice pensato per orientare le scelte dei consumatori sulla bontà di un tessuto rispetto alla sua versione tradizionale.
Ad esempio, la differenza di impatto ambientale fra cotone biologico e quello tradizionale o tra poliestere riciclato e quello vergine. Questo Indice è utilizzato da diverse aziende che aderiscono alla SAC (Sustainable Apparel Coalition), una coalizione che raggruppa 250 soci, circa la metà sono marchi di moda e rivenditori, il restante sono aziende manifatturiere, Ong e associazioni governative.
Higg Sustainability Profiles è uno strumento di misurazione in evoluzione. Tanto che non tiene conto della sostenibilità sociale, ma solo dell’impatto ambientale ed anche in forma limitata. Infatti, riporta i valori medi generali di un determinato materiale non considerando il prodotto finito specifico e la sua provenienza geografica.
Ad ogni modo, forte dei punteggi di sostenibilità ambientale e di altre informazioni, Chelsea Commodore ha acquistato un maglione e un cardigan della Conscious Collection pagandolo di più rispetto agli altri prodotti H&M o dei suoi concorrenti. Una scelta motivata dal fatto che «la querelante riteneva ragionevolmente che H&M avesse fornito informazioni accurate sul caratteristiche ambientali dei suoi prodotti», si legge nel ricorso.
Dati sulla sostenibilità sbagliati: l’inchiesta di Quartz
A giugno però è uscita una inchiesta di Quartz che ha scoperto come gran parte dei punteggi ambientali erano fuorvianti e ingannevoli. Da qui è partita la class action della donna.
I dati erano persino distanti da quelli indicati dall’indice Higg. «Questi errori – spiega Quartz – si sono verificati perché il sito Web del rivenditore ha ignorato i segni negativi nei punteggi dell’indice Higg. Ad esempio, un vestito con un punteggio di utilizzo dell’acqua del -20%, poiché impiega il 20% in più di acqua rispetto alla media, è stato elencato sul sito web di H&M con un consumo del 20% in meno». Si è trattato di una svista, di un errore tecnico o di una azione voluta? E’ tutto da appurare.
Dopo questa inchiesta H&M ha rimosso tutte le scorecard ambientali dal suo e-commerce. Dal canto suo la SAC ha messo in pausa l’Indice in questione.
L’autorità norvegese per i consumatori scrive a H&M
La sospensione, ha spiegato SAC, è dovuta alla notifica che l’Autorità norvegese per i consumatori (NCA) ha inviato a H&M e al brand Norrøna. In questa notifica vengono messe in dubbio proprio le affermazioni di sostenibilità dell’Higg. Infatti, il SAC sta attualmente collaborando con l’Autorità norvegese «per affrontare le preoccupazioni relative all’uso dei dati a sostegno delle affermazioni ambientali rivolte ai consumatori».
D’altra parte, come è spiegato su Apparel Insider, «lo sviluppo di Higg per un uso affidabile è in gran parte un lavoro in corso. Pertanto, in questo momento, fare pieno affidamento su di esso potrebbe davvero essere prematuro. In breve, l’indice di Higg probabilmente non può ancora essere definito un prodotto della scienza esatta».
Troppe fibre sintetiche nella collezione Conscious Choice
Inoltre, come denuncia Chelsea Commodore, la collezione Conscious di H&M include tessuti sintetici, come il poliestere che «non è biodegradabile, produce microplastiche tossiche e non è riciclabile» per fare nuovi vestiti, è scritto nel ricorso. Stesse problematicità anche per il poliestere riciclato.
Insomma, dov’è la sostenibilità ambientale in questa collezione “consapevole”?
Infine, sotto accusa anche il Programma Garment Collecting, la raccolta di abiti usati che H&M ha avviato nel 2013 . «Il posizionamento da parte di H&M di cestini nei negozi dove ai consumatori viene detto che possono riciclare vecchi vestiti è fuorviante, poiché le soluzioni di riciclo «non esistono o non sono disponibili in commercio su larga scala».
Infatti, meno dell’1% dei tessuti viene riciclato per fare nuovi vestiti. Per cui, «H&M, uno dei più grandi rivenditori al mondo, impiegherebbe più di un decennio per riciclare in nuova fibra ciò che vende solo in pochi giorni».
Tutto sembrerebbe studiato per incentivare gli acquisti continuando a comprare capi che, ben che vada, indosserai poche volte. Un invito persino a consumare di più, visto che se partecipi al programma di raccolta di abiti usati, o acquisti capi della Conscious Choice, H&M rilascia punti e buoni sconto da spendere sul prossimo acquisto.
Come andrà a finire l’accusa di greenwashing contro H&M?
Comunque vada a finire, già ora si tratta di una azione legale molto importante, un campanello di allarme per tutti i marchi di moda che, per attirare una clientela attenta e sensibile agli impatti ambientali e sociali di questo settore, fa passare per sostenibile quello che non lo è.
In più, tieni presente che la sostenibilità per il settore del fast fashion è a dir poco un ossimoro. Come si può essere sostenibili (almeno dal punto di vista ambientale) se si producono miliardi di capi all’anno? Solo H&M ne produce 3 miliardi. Non c’è collezione consapevole né sostenibile a livello ambientale, e tanto meno sociale, fino a quando i marchi non decideranno di ridurre i volumi di produzione.
Produrre meno e meglio, è quanto chiede la Commissione europea nella Strategia dell’Unione europea per i prodotti tessili sostenibili e circolari. Significa che i marchi di fast fashion dovranno decisamente cambiare modello di business se vorranno vendere all’interno dell’Ue. Per cambiare hanno 8 anni scarsi. Il tempo scade al 2030.
Ma, intanto, cosa ne sarà della class action intentata dalla coraggiosa Chelsea Commodore? Come spiegano un gruppo di avvocati su Apparel Insider l’azione collettiva dovrà essere ammessa dalla Corte Federale di New York. H&M potrebbe proporre un accordo extragiudiziale oppure, se si andrà in tribunale, concludersi nel giro dei prossimi tre anni.
Foto di Noelle Otto da pexels