Probabilmente, se dai un’occhiata alle etichette dei tuoi vestiti in qualcuno troverai scritto “Made in Bangladesh” il che penso non ti stupirà.
Il Bangladesh è il secondo esportatore al mondo di abbigliamento dopo la Cina. Da questo export ricava l’82% degli introiti sul totale delle esportazioni del Paese; e, secondo le stime, il valore dell’esportazione dell’abbigliamento arriverà a 100 miliardi di dollari entro il 2030.
In Bangladesh producono i principali marchi di moda globali, specie del fast fashion. Saprai pure che questi lavoratori vengono pagati una miseria.
In totale l’industria dell’abbigliamento nel Paese impiega circa 4milioni di lavoratori, la maggior parte sono donne (58,4%), distribuiti su 4mila fabbriche. Ora però non ne possono più. Stanno manifestando da diversi giorni per chiedere una salario vivibile: per mangiare, curarsi, mandare i figli a scuola, pagare un affitto.
La negoziazione sul salario minimo
La negoziazione sul salario minimo in Bangladesh avviene ogni 5 anni. Nel 2019 era 8,000 Tk (73 euro al mese, cioè poco più di 2 euro al giorno considerando un intero mese). I sindacati dei lavoratori ne chiedono 23.000 Tk, cioè 193 euro al mese.
Le proteste si sono acuite dopo che la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA), in rappresentanza delle fabbriche, ha proposto un salario minimo di 10.400 Tk (87 euro).
E il Governo? Il Ministero del lavoro ha rilanciato l’offerta portando il salario minimo a 12.500 Tk (105 euro al mese), cioè poco più della metà rispetto a quanto chiedono i lavoratori.
Le proteste, duramente represse dal Governo, stanno continuando. Oltre agli arresti e ai molti feriti ci sono stati, purtroppo, anche tre morti.
Perché il salario non può scendere sotto ai 193 euro mensili? Secondo uno studio approfondito sul costo della vita (Mind the gap. A study on Garment workers in Bangladesh) condotto dal Bangladesh Institute for Labour Studies (BILS), che riunisce le principali rappresentanze sindacali, qualsiasi salario inferiore a 23.000 Tk non permette ai lavoratori e alle lavoratrici di sostenere se stessi e le persone a loro carico.
Considera che alcuni prodotti alimentari sono aumentati del 100%.
Bangladesh: paghe da fame e superlavoro
Come riferisce BILS, nello studio citato, il 18,6% dei lavoratori ha affermato di essere completamente esausto. Niente congedi e riposi (38,3%), obiettivi di lavoro in aumento (26,2%), orari di lavoro eccessivi (18,4%) sono le principali ragioni di stress sul lavoro.
Storie di svenimenti e vertigini durante il lavoro sono comuni ovunque.
L’87% dei lavoratori del settore tessile ha riferito che il loro salario non è sufficiente a coprire i costi di istruzione per i propri figli.
A parte il normale orario di lavoro, i lavoratori dell’abbigliamento in media fanno 3 ore e mezza di straordinario al giorno e 1 su 6 arriva addirittura a 5 ore al giorno di straordinario.
Il 41% ha affermato che spesso lavorano un mese intero senza un giorno libero. Ma si registrano casi anche fino a 6-9 mesi all’anno senza un solo giorno di riposo.
Questi sono solo alcuni effetti dello sfruttamento del lavoro in Bangladesh. I lavoratori sono costretti a fare il superlavoro per poter avere il minimo per vivere, ma nemmeno questo basta.
Salario minimo: i marchi di abbigliamento che producono in Bangladesh
E i brand che producono in Bangladesh cosa stanno facendo per sostenere la revisione del salario minimo?
Come riferisce Clean Clothes Campaing (rete globale per i diritti dei lavoratori del settore tessile) i marchi che hanno preso una posizione pubblica sulla revisione del salario minimo sono: G-Star, Inditex, Tchibo, OVS, Puma, Patagonia e Carrefour.
Però, solo Patagonia sta sostenendo esplicitamente la cifra di 23.000 Tk richiesta dai sindacati.
Quali sono i marchi che invece risultano silenti? Asos, C&A, H&M, Lululemon, Marks & Spencer Primark, Zalando, Uniqlo, New Look, Next Bestseller, Esprit, Aldi.
Alle proteste dei lavoratori, le fabbriche rispondono che non possono permettersi un salario minimo superiore ai 12.500Tk, tanto che questa cifra metterebbe fuori mercato alcuni sub-fornitori.
Ma, visto che i prezzi di acquisto li fanno i marchi di moda, è doveroso – considerati i loro lauti profitti – concordare con i loro fornitori prezzi che siano equi e che garantiscano il pagamento di un salario vivibile ai lavoratori.
Intanto, cosa puoi fare?
Puoi partecipare alla campagna di Clean Clothes Campaing lasciando un commento sui loro canali social, taggando i brand che ho elencato sopra e l’hashtag #23000tk. Alla campagna ha aderito anche Fashion Revolution.
Puoi anche scrivere direttamente al marchio, chiedendo un impegno pubblico sulla situazione salariale in Bangladesh.
Infine, se vuoi sapere se il tuo brand preferito si sta adoperando per un salario dignitoso lungo la catena di fornitura, puoi consultare il Fashion Checker della Campagna Abiti Puliti, ne avevo parlato in questo articolo: Moda e salario dignitoso: i conti non tornano.
Spero di darti presto aggiornamenti positivi su questa dolorosa questione.