No, non è un bel vestito se chi lo ha cucito non riceve un salario dignitoso. E’ risaputo che la stragrande maggioranza della manodopera che lavora nell’industria globale della moda e dell’abbigliamento sportivo non riceve un salario equo. Piuttosto, viene pagata con salari di povertà, al limite del salario minimo legale.
Sono persone sottoposte a orari di lavoro massacranti o al doppio lavoro per far fronte ai bisogni famigliari primari. Questo avviene ovunque: dall’Asia all’Africa, dall’America centrale all’Europa orientale.
Eppure, percepire un salario dignitoso è un diritto umano fondamentale, come stabilito dalle Nazioni Unite.
Non solo, nei Principi Guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani è scritto che le imprese sono tenute a garantire il diritto umano ad un salario dignitoso. Questo principio vale anche se l’impresa delocalizza la sua produzione dall’altro capo del mondo.
Ne avevo parlato anche in questo articolo Moda e salario dignitoso, i conti non tornano in occasione degli ultimi dati del Fashion Checker di Clean Clothes Campaign (Campagna Abiti Puliti). Dall’analisi solo 5 marchi, su 264 brand globali esaminati, ha dichiarato di corrispondere un salario dignitoso almeno ad alcuni dei lavoratori della filiera.
E’ evidente che il salario dignitoso è un miraggio per almeno 60 milioni di persone, di cui l’80% donne, impiegate nelle filiere globali di produzione della moda.
Perché il livello salariale minimo legale non basta
Il salario minimo legale è molto lontano dal salario minimo di sussistenza. Cioè è insufficiente a garantire il soddisfacimento dei bisogni essenziali di base: cibo, abitazione, istruzione, salute, vestiario, trasporti e qualche risparmio per far fronte agli imprevisti.
Infatti, il salario minimo legale non è calcolato sul costo della vita e sui bisogni del nucleo famigliare, ma è il frutto di una negoziazione politica che segue le logiche di mercato.
Ci sono marchi e distributori che nei loro codici di condotta si impegnano per un salario dignitoso, ma nella realtà si limitano a verificare che sia corrisposto il minimo salariale legale.
Il “Made in Europe” non dà garanzie sul salario di sussistenza
Per avere il quadro della situazione non occorre andare troppo lontano. Nemmeno il “Made in Europe” dà garanzie sulla corresponsione di un salario dignitoso.
Infatti, nel report del 2021 Come calcolare l’Europe Floor Wage, della Campagna Abiti Puliti, su 15 Paesi analizzati, di cui 7 dell’Unione europea, in media i salari minimi legali corrispondono a 1/4 del salario dignitoso considerato.
Non solo, il Report dimostra che nell’Europa centrale, orientale e sudorientale tutti i salari minimi legali netti sono molto inferiori rispetto alla soglia di povertà definita dall’Unione europea (il 60% del salario medio).
Parliamo di un’area che nell’industria dell’abbigliamento impiega più di 2,3 milioni di persone, prevalentemente donne.
Nell’Ue la più grande campagna di raccolta firme sul salario dignitoso
Come cittadini dell’Unione europea possiamo attivarci e chiedere una legislazione per un salario dignitoso nell’intera filiera dell’industria della moda. Il momento è arrivato.
Il movimento Fashion Revolution, la Fondazione Fair Wair e ANS Bank hanno avviato un’Iniziativa dei Cittadini Europei (ECI) dal titolo Good Clothes Fair Pay. E sì, perché un bel vestito è tale solo se chi lo ha fatto ha ricevuto un salario equo. Di questo progetto fanno parte altre organizzazioni come World Fair Trade Organization-Europe e Clean Clothes Campaing.
L’iniziativa nasce per arrivare a una legislazione che richieda ai marchi e rivenditori del settore dell’abbigliamento, tessile e calzaturiero di condurre una due diligence sui salari di sussistenza in tutte le catene di produzioni globali. Significa che marchi e rivenditori devono operare con dovuta diligenza per garantire salari dignitosi ai lavoratori nelle loro filiere di produzione.
L’ECI (Iniziativa dei Cittadini Europei) è uno strumento unico di democrazia partecipativa nell’Ue. E’ il modo con cui i cittadini europei possono invitare la Commissione europea a proporre atti legislativi. Per arrivare all’obiettivo occorre raccogliere 1 milione di firme in almeno 7 Paesi Ue.
Marchi di moda obbligati alla trasparenza
La due diligence sui salari farebbe emergere dall’ombra milioni di lavoratori inducendo i marchi ad essere trasparenti sulle condizioni di lavoro lungo le catene di fornitura.
In pratica, tutti i marchi e i rivenditori che vendono all’interno dell’Ue, anche con sede altrove, sono tenuti ad attuare, monitorare e divulgare pubblicamente un piano con scadenze e obiettivi per colmare il divario tra salario effettivo e salario minimo.
Un salario vivibile è un atto di giustizia per milioni di donne sfruttate ancor peggio degli uomini, visto che solitamente percepiscono una paga inferiore.
L’iniziativa Good Clothes Fair Pay arriva al momento giusto. Cioè quasi in concomitanza con la proposta di direttiva sulla due diligence delle imprese presentata dalla Commissione europea il 23 febbraio scorso.
La proposta di direttiva, che dovrà essere approvata dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione europea, riguarda il dovere di diligenza e di assunzione di responsabilità delle aziende sul piano sociale e ambientale. Quindi, le imprese sono responsabili degli effetti negativi delle loro operazioni sul Pianeta e sulle persone. Pertanto sono tenute a effettuare verifiche e prevenzione. Questa responsabilità è estesa a tutta la filiera globale di produzione.
La proposta di direttiva ha, però, dei limiti. Tra i quali, nel caso del settore tessile, abbigliamento e calzature, quello di considerare solo le imprese con 250 dipendenti e con ricavi superiori a 40 milioni di euro. Cosa che escluderebbe la stragrande maggioranza delle imprese europee che sono di piccole e medie dimensioni.
L’ECI Good Clothes Fair Pay, invece, supera questo limite perché include tutte le imprese indipendentemente dal fatturato e numero di dipendenti.
Gli effetti a cascata del salario di sussistenza
Il riconoscimento effettivo di un salario di sussistenza ha diversi risvolti positivi anche sulla sostenibilità ambientale.
Infatti, una paga equa costringerebbe le aziende ad assumersi il costo reale del lavoro. Sarebbe quindi meno conveniente per le multinazionali della moda produrre una quantità inutile di articoli.
Di conseguenza, produrre meno significa consumare meno risorse naturali, ridurre l’inquinamento, diminuire le emissioni di gas serra dovute ai processi produttivi e al trasporto, ridurre i rifiuti da smaltire.
Insomma, l’occasione è più che propizia per far sentire la nostra voce di cittadini europei per una industria della moda più equa e giusta.
Per partecipare alla campagna per la raccolta di 1 milione di firme puoi consultare il sito Good Clothes Fair Pay e iscriverti alla newsletter per aggiornamenti.