La fast fashion ha gli anni contati e sono davvero pochi: 8 scarsi. Nel 2030 non dovrebbe più esistere, almeno secondo la Strategia dell’Unione europea per i prodotti tessili sostenibili e circolari. Significa che i marchi di fast fashion, come Zara, H&M, Primark, Forever 21, e tanti altri, dovranno cambiare decisamente modello di business se vorranno vendere all’interno dell’Ue.
Per non parlare poi della moda ultra veloce e ultra low cost che ha cicli di produzione ancora più rapidi. Un esempio è il gigante cinese Shein che, proprio in questi giorni, è stato valutato in 100 miliardi di dollari, più di Zara e H&M messi insieme. Con il suo sito di e-commerce Shein immette sul mercato fino a 10 mila articoli al giorno.
Perché l’Unione europea ha preso di mira la moda usa e getta?
La questione è molto più ampia poiché rientra nel Piano di Azione per l’Economia circolare che l’Ue si è data. Il Piano prevede una serie di misure e iniziative che coinvolgono diversi settori industriali. L’obiettivo è passare entro il 2030 dall’attuale modello di economia lineare a un sistema di economia circolare.
In pratica, bisognerà passare da un sistema che estrae risorse, per produrre beni che vengono consumati (spesso poco) e poi buttati, a una economia circolare che, invece, tiene conto dell’intero ciclo di vita del prodotto: dalla creazione allo smaltimento, riducendo al minimo l’impatto ambientale. Il tutto in linea con il Green Deal europeo, la nuova agenda europea per la crescita sostenibile.
I settori interessati a questa transizione sono quelli che utilizzano più risorse naturali, più energia e che hanno maggiori potenzialità di circolarità, cioè beni che possono essere utilizzati, riutilizzati e riciclati più volte. Tra questi settori, insieme all’edilizia, agli imballaggi, all’elettronica e altri, c’è l’industria tessile e moda. Tutta la moda, non solo fast fashion, e tutti i tessuti compresi quelli per la casa.
Insomma, tutto quello che verrà immesso sul mercato dell’Ue dovrà essere ideato e prodotto estraendo il meno possibile materie prime, dovrà essere durevole, riparabile e riciclabile a fine vita. Questo in linee generali. Ma già da qui si capisce perché “la moda fast fashion al 2030 sarà fuori moda”, come scrive la Commissione europea nella comunicazione sulla Strategia per i prodotti tessili sostenibili e circolari:
“Entro il 2030 i prodotti tessili immessi sul mercato dell’Ue saranno longevi e riciclabili, in grande misura realizzati con fibre riciclate, privi di sostanze pericolose e prodotti nel rispetto dell’ambiente e dei diritti sociali . I consumatori beneficeranno più a lungo di un’alta qualità a prezzi accessibili, il fast fashion sarà fuori moda e il riutilizzo e la riparazione economicamente vantaggiosi con servizi ampiamente disponibili.
In un settore tessile competitivo, resiliente e innovativo, i produttori si assumono la responsabilità dei loro prodotti lungo la catena del valore, anche quando diventano rifiuti. L’ecosistema tessile circolare sarà fiorente, guidato da capacità sufficienti per un innovativo riciclaggio da fibra a fibra, mentre l’incenerimento e il conferimento in discarica dei tessili sarà ridotto al minimo”.
Perché è necessario agire sui prodotti tessili e sulla fast fashion?
Nella comunicazione della Commissione sono spiegate le ragioni per cui è necessario agire con urgenza nel settore tessile e moda, in particolare sulla fast fashion (leggi Come funziona la moda veloce).
Intanto, il consumo europeo di prodotti tessili è al quarto posto per maggior impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici, dopo l’alimentazione, gli edifici e la mobilità. In più, è il terzo settore per maggiore utilizzo di acqua e suolo e il quinto per l’uso di materie prime e di emissioni di gas a effetto serra.
Non solo, in media ogni cittadino europeo butta via 11 kg di prodotti tessili all’anno. Nel mondo ogni secondo l’equivalente di un camion di prodotti tessili viene collocato in discarica o incenerito.
La produzione mondiale di prodotti tessili è quasi raddoppiata tra il 2000 e il 2015 e il consumo di capi di abbigliamento e calzature dovrebbe aumentare del 63% entro il 2030. Parallelamente, a questa costante espansione, gli impatti negativi sulle risorse, l'acqua, il consumo di energia e il clima continuano ad aumentare.
L’Unione europea dipende enormemente dall’importazione di tessuti e abbigliamento. Nel 2019 è stato raggiunto il valore di 80 miliardi di euro. Questo comporta anche una insostenibilità sociale visto che la gran parte della produzione avviene in Paesi dove lo sfruttamento del lavoro, in particolare delle donne, è la norma. Senza contare il lavoro minorile.
Perché la sovrapproduzione e il consumo di fast fashion è insostenibile?
L’abbigliamento rappresenta la quota maggiore del consumo tessile dell’Ue (81%). Si tratta di capi che vengono usati per periodi sempre più brevi per diventare ben presto rifiuti. Siamo di fronte a un modello “insostenibile di sovrapproduzione e consumo eccessivo”.
Come ci siamo arrivati? Su questo punto la Commissione è chiara: la causa è nel modello fast fashion che sforna fino a 52 micro-collezioni all’anno di articoli di bassa qualità e a poco prezzo grazie allo sfruttamento della manodopera.
I prezzi bassi sono un forte incentivo all’acquisto. Ma in realtà si finisce per spendere di più. “Anche se tra il 1996 e il 2018 i prezzi dell'abbigliamento nell'Ue sono diminuiti di oltre il 30% rispetto all’inflazione, in media la spesa delle famiglie per l'abbigliamento è aumentata", scrive la Commissione. Dov'è il risparmio?
Nel grafico di statistica.com i primi 10 marchi di fast fashion europei classificati in base alle unità vendute in tutto il mondo nell’anno finanziario 2018/2019. In testa Zara (Gruppo Inditex) con quasi 3 miliardi di unità.
In più, oltre al mancato risparmio economico, la moda veloce aumenta la dipendenza dai combustibili fossili a causa dell’ampio uso di fibre sintetiche. E questo si scontra con gli impegni dell’Ue sulla riduzione del 55% dei gas a effetto serra al 2030 rispetto al 1990. Un abbattimento che prevede un ricorso minimo ai combustibili fossili.
"La qualità dei tessuti e la riciclabilità da fibra a fibra non sono le priorità per l’industria della moda fast fashion, scrive la Commissione". All’impatto ambientale e al contributo al cambiamento climatico, si aggiunge anche lo spargimento di microplastiche di tessuti e calzature durante tutte le fasi del ciclo di vita.
E allora che si fa? Ecco i punti più salienti della Strategia sul tessile
Per una moda più sostenibile e circolare la strategia individua diversi punti di azione. Eccoli riassunti in 7 passaggi chiave.
1) Ecodesign prima di tutto
Estendere la vita di un prodotto tessile è la prima azione per ridurre l’impatto sul clima e sull’ambiente in generale. Se un prodotto è di buona qualità durerà di più, potrà essere riparato, riutilizzato, noleggiato, tornare sul mercato come abbigliamento di secondo mano. A fine vita poi potrà essere riciclato per fare nuovi abiti. E’ questo il vero risparmio.
Molto però dipende dalla scelta dei tessuti in fase di progettazione. Il nocciolo è nella fibra. Attualmente, meno dell’1% dei rifiuti tessili diventano nuovi tessuti per l’abbigliamento.
Il problema è nella miscela delle fibre, come ad esempio il poliestere mischiato con il cotone. Al momento, come scrive la Commissione, non ci sono tecnologie adeguate per separare le diverse fibre che compongono un tessuto. Per questo saranno stabiliti nuovi requisiti di progettazione per i prodotti tessili nell'ambito del regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili.
Inoltre, saranno fissate percentuali minime obbligatorie di fibre riciclate e criteri per rendere i tessuti più duraturi e più facili da riparare e riciclare. Le aziende sono anche invitate a ridurre il numero delle collezioni all’anno.
2) Stop alla distruzione dei capi invenduti
La Commissione propone un obbligo di trasparenza che impone alle grandi aziende di rendere pubblico il numero di prodotti che scartano e distruggono, compresi i tessili. Inoltre, dovranno informare sul trattamento in termini di preparazione per il riutilizzo, il riciclo, l’incenerimento o il conferimento in discarica.
L’obiettivo è andare verso il divieto di distruzione dell’invenduto o di capi restituiti. Questa misura dovrebbe arrestare la sovrapproduzione di articoli che poi finiscono inceneriti o in discarica.
3) Prevenire il problema delle microplastiche
L’inquinamento da microplastiche nei mari e nell’ambiente in generale è fonte di preoccupazione per la salute degli ecosistemi e per quella umana. Ormai, il 60% delle fibre utilizzate nell’abbigliamento è sintetico con il poliestere in testa. Una percentuale stimata in crescita.
Poiché il quantitativo maggiore di microplastiche viene rilasciato nei primi 5-10 lavaggi, la fast fashion, che fa un crescente uso di fibre sintetiche, ha un forte impatto sull’inquinamento. Ogni anno vengono rilasciate fino a 40 mila tonnellate di fibre sintetiche solo dal lavaggio in lavatrice.
Oltre alla progettazione del prodotto, le misure messe in campo riguarderanno i processi di produzione, il prelavaggio negli impianti di produzione industriale, l’etichettatura e la promozione di materiali innovativi.
Ulteriori opzioni includono i filtri per lavatrice, che possono raccogliere fino all’80% delle microplastiche, sviluppo di detersivi delicati, cura e lavaggio, trattamento dei rifiuti tessili a fine vita e regolamenti per il miglioramento delle acque reflue e trattamento dei fanghi di depurazione.
La questione sul rilascio di microplastiche sarà affrontata nella seconda metà del 2022.
4) Un passaporto digitale
Nella Strategia c’è anche il passaporto digitale per i tessuti. Dovrebbe contenere informazioni sulla composizione, sulla durabilità e altri aspetti chiave di carattere ambientale e di circolarità del prodotto. E’ previsto un riesame dell’etichettatura che potrebbe essere anche digitale.
Insomma, l’obiettivo è quello di dare più informazioni possibili a chi acquista e rendere la filiera più trasparente e tracciabile. Quello che oggi proprio non è.
5) No al greenwashing e al poliestere riciclato da bottiglie di Pet
Aumentare la consapevolezza dei consumatori sulla moda sostenibile e affrontare il tema del greenwashing (il falso “ecosostenibile”) è un aspetto essenziale. Affermazioni generiche ambientali come “verde”, “sostenibile”, “eco_friendly”, “buono per l’ambiente” non saranno più tollerate se non comprovate da validi strumenti di misurazione delle prestazioni ambientali.
Le etichette di sostenibilità volontarie che riguardano aspetti ambientali o sociali dovranno basarsi su verifiche da parte di terzi o essere stabilite da autorità pubbliche.
La Commissione si sofferma sulle dichiarazioni ecologiche dei brand dell'abbigliamento che impiegano tessuti in poliestere riciclato da bottiglie di Pet. Ebbene: “Tale pratica non è in linea con il modello circolare”. Piuttosto, la Commissione incoraggia le aziende a puntare sul riciclo da fibra a fibra e non dalle bottiglie di Pet che, invece, debbono essere riciclate per farne altro imballaggio. E' così che si chiude il cerchio. Senza contare che il poliestere riciclato non risolve il problema dello spargimento delle microplastiche (leggi Tessuti sintetici: 5 motivi per cui il poliestere riciclato non è una soluzione).
6) I produttori saranno responsabili dei rifiuti tessili
I costi di fine vita dei rifiuti tessili saranno a carico dei produttori. Ci saranno norme armonizzate a livello di Unione europea affinché venga applicata la Responsabilità estesa del produttore per i tessili (EPR).
Diversi Paesi membri stanno già considerando l’introduzione dell’EPR visto l’obbligo di introdurre la raccolta differenziata dei rifiuti tessili entro il 1° gennaio 2025. In Italia vige dal 1° gennaio 2022, ma concretamente non è partita perché mancano i decreti attuativi del Ministero della transizione ecologica.
L’EPR è un incentivo per le aziende a produrre meno e meglio in un’ottica circolare. La Commissione prevede una eco-modulazione delle tariffe in capo alle aziende da stabilire nell’ambito della revisione della direttiva quadro sui rifiuti nel 2023. Inoltre, saranno previsti incentivi economici per rendere i prodotti più sostenibili e circolari.
7) Frenata alle esportazioni tessili dei rifiuti
Le esportazioni di rifiuti tessili al di fuori dell’UE sono in aumento e hanno raggiunto 1,4 milioni tonnellate nel 2020. Una recente proposta della Commissione pone dei limiti all’esportazione verso paesi non OCSE. L’esportazione è consentita a condizione che: “Tali paesi notifichino alla Commissione la volontà di importare specifici tipi di rifiuti e dimostrare la loro capacità di gestirli in modo sostenibile”.
Inoltre, saranno prese misure specifiche per evitare che i flussi di rifiuti vengano falsamente etichettati come beni di seconda mano quando invece sono rifiuti.
La Commissione lavorerà anche per aumentare la trasparenza e la sostenibilità nel commercio mondiale di cascami tessili e tessili usati.
Speriamo di non vedere più discariche simili a quelle nel deserto di Atacama.
La moda è anche una questione sociale e di diritti umani
Nella Strategia la Commissione europea si sofferma ampiamente sull’impatto ambientale del settore tessile e moda toccando solo a grandi linee l’impatto sociale.
La Commissione cita alcune azioni in atto e in corso per promuovere catene del valore più ecologiche ed eque. Tra le quali ricorda la proposta di direttiva sulla due diligence, cioè il dovere di diligenza e di assunzione di responsabilità delle aziende sul piano sociale e ambientale nelle loro catene del valore globali.
La proposta, però, si riferisce solo alle aziende con 250 dipendenti e ricavi superiori a 40 milioni di euro. Peccato, però, che le aziende del settore tessile e moda nell’Ue sono principalmente di medie e piccole dimensioni.
Prima che la Strategia tessile si traduca in normativa ci vorrà del tempo. Intanto, proseguono le consultazioni con tutte le parti interessate, quindi molti aspetti possono essere migliorati.
Nel frattempo, Fashion Revolution ha lanciato la Campagna Good Clothes, Fair Pay per chiedere alla Commissione europea una legislazione sul salario di sussistenza nel settore dell’abbigliamento, tessile e calzaturiero indipendentemente dalle dimensioni e fatturato dell’azienda.
In questo articolo “Non è un bel vestito se chi lo ha cucito è stato sfruttato“, ti racconto di cosa si tratta e come partecipare alla Campagna Good Clothes, Fair Pay. Un’occasione importante per ribadire alla Commissione europea che, come sottolinea Fashion Revolution, la sostenibilità sociale e ambientale sono due facce delle stessa medaglia.
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