“Stracci” è un documentario che racconta il destino degli abiti usati. Quelli che non utilizziamo più. Quelli passati di moda, quelli usati poco, quelli vecchi, quelli ancora nuovi e mai indossati. Che fine fanno quando ce ne liberiamo? Ma c’è anche l’invenduto, gli scarti, i ritagli dell’industria della moda. Dove finisce tutta questa immensa fonte di materia prima?
Il docufilm “Stracci” è un viaggio a più tappe e a più voci, che parte dal distretto tessile di Prato, dove il riciclo degli abiti usati si fa da oltre un secolo, e fa il giro del mondo.
Il documentario è diretto da Tommaso Santi, regista e sceneggiatore, che lo ha scritto insieme a Silvia Gambi, giornalista. E’ prodotto dalla casa di produzione indipendente Kove in collaborazione con Solo Moda Sostenibile, podcast e magazine curato da Silvia Gambi. Da alcuni giorni è possibile vedere “Stracci” anche sulla piattaforma Amazon Prime Video.
Le prime sequenze del documentario sono di grande impatto. Le immagini sono quelle della più grande discarica di rifiuti tessili dell’Africa, ad Accra capitale del Ghana. La discarica è in fiamme.
Dal documentario si apprende che ogni anno nelle discariche vengono bruciati 60 miliardi di chili di rifiuti tessili. C’è di tutto, persino articoli con il cartellino attaccato.
Da questa triste realtà si passa al distretto tessile di Prato, dove il riciclo e il riuso degli abiti usati è una tradizione secolare. Li chiamano stracci, da qui il titolo del documentario, e sono una risorsa enorme.
La tradizione del riuso e del riciclo di Prato
A Prato l’economia circolare del tessile esiste da 150 anni. Già all’epoca riusare e riciclare, quello che gli altri gettavano via, era la norma.
A fare la fortuna del distretto tessile pratese è il riciclo della lana trasformata in nuova fibra, nuovo filato, nuovo tessuto per nuovi abiti. E’ lana rigenerata ricavata dal riciclo meccanico. Lo stesso di sempre.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la scarsità delle materie prime tessili, il riciclo degli stracci diventa ancora più importante, spiega Giuseppe Guanci, storico dell’industria tessile. Tanto che Prato diventa la capitale mondiale del riciclo. I vecchi tessuti vengono trasformati in nuovi tessuti per fare nuovi abiti in tutto il mondo.
Ancora oggi a Prato arrivano abiti usati da ogni parte d’Europa, principalmente dalla raccolta delle organizzazioni benefiche. Qual è il loro destino? Il 47% va al riciclo, il 3% in discarica e il resto al riuso.
L’impatto ambientale della produzione tessile
La qualità di quello che indossiamo è cambiata: un mix di fibre, perlopiù sintetiche, che rende difficile il riciclo. La quantità dell’abbigliamento prodotto e venduto è da tempo ormai insostenibile.
Al riguardo Juliet Lennon della Ellen MacArthur Foundation, organizzazione internazionale che sviluppa e promuove l’economia circolare, sottolinea come alla crescente produzione corrisponda un utilizzo limitato degli abiti. Si produce e si consuma velocemente secondo il modello usa e getta. Tanto che in 10 anni, la vendita è raddoppiata arrivando a 100 miliardi di unità.
Tutto questo genera un impatto ambientale enorme. Ogni anno vengono utilizzate 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili e nel 2050 arriveranno a 300 milioni di tonnellate, avverte Juliet Lennon. Senza contare le emissioni di anidride carbonica e il relativo contributo al cambiamento climatico. Fatto sta che l’industria del fashion è tra le più inquinanti al mondo.
L’Africa, discarica dei rifiuti tessili del mondo
L’industria della moda non si preoccupa dello smaltimento degli abiti e noi consumatori non ci poniamo il problema della loro fine una volta che li gettiamo via.
Oltre allo scandalo della discarica di Atacama in Cile, l’Africa è diventata la discarica degli “abiti usati dell’uomo bianco morto”: in effetti, solo da chi è passato a miglior vita possono provenire così tanti vestiti usati, altrimenti sarebbero ancora in uso. E invece no, l’iperconsumo è figlio della sovrapproduzione. Un tempo si facevano 2 collezioni all’anno primavera/estate e autunno/inverno, ma a causa della moda fast fashion si arriva fino a 52 micro-collezioni.
Come racconta Liz Ricketts, co-founder di The OR Foundation, organizzazione che si occupa di promuovere progetti di economia circolare, in Ghana ogni anno arrivano circa 780 milioni di capi usati (circa 130 mila tonnellate di rifiuti tessili).
Al mercato di Kantamanto, il principale di Accra, giungono 15 milioni di vestiti usati a settimana. Provengono da Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Germania, Paesi Bassi e Corea.
Molti di questi milioni di capi usati non arrivano nemmeno in discarica, l’invenduto della giornata viene bruciato. Kantamanto, però, è anche un importante laboratorio di riuso e di upcycling: ogni mese rimette in circolazione 25 milioni di capi.
Perché riciclare la lana e le altre fibre animali?
A Prato si ricicla la lana e altre fibre animali, come il cachemire. Gabriele Innocenti, della Filati Omega, spiega che la lana riciclata costa meno rispetto a quella vergine. Questo rapporto è inverso per le fibre sintetiche, come il poliestere riciclato. A pesare, è il processo di riciclo chimico e fisico a cui sono sottoposte.
Poi c’è anche un vantaggio ambientale enorme. L’azienda tessile Manteco ha misurato l’impatto ambientale della lana rigenerata su quella vergine. Risultato? Meno 84% di acqua, meno 70% di energia, e circa il 74% in meno di emissioni anidride carbonica.
Il cachemire riciclato, come spiega Federico Gualtieri, titolare della Filpucci, ha un impatto ambientale del 95% in meno rispetto a quello vergine.
Inoltre, grazie al lavoro manuale dei cenciaioli, che dividono le maglie usate per materiale e colore, il processo di tintura è eliminato.
In più, si tratta di fibre biodegradabili e riciclabili più volte.
Nell’industria del fashion solo lo 0,5% delle fibre utilizzate è riciclato. La lana arriva al 6%, a questo risultato dà un grande contributo il distretto tessile pratese.
Il documentario fa tappa anche in Pakistan, paese che insieme all’India è il principale fornitore estero di maglie di lana usata per l’industria tessile di Prato. Tra i fornitori c’è l’imprenditore pakistano Hasnain Lilani che ha visitato il distretto tessile di Prato più volte, imparando molto. Come i cenciaioli di Prato, nella sua azienda ogni indumento di lana usato viene diviso per tipologia e colore.
Questa azienda è un esempio di come il modello del riciclo tessile di Prato possa essere replicato altrove. Persino in Pakistan che è tra i principali fornitori mondiali di cotone.
Riciclato e riciclabile che differenza c’è?
Il documentario punta l’accento sulla differenza fra riciclato e riciclabile, due termini che possono essere confusi e trarci in inganno. Va bene riciclare i tessuti per produrre nuovi capi, ma per essere successivamente riciclabili al 100% devono essere facilmente smontabili. Significa, ad esempio, che devono essere pensati in modo che non abbiano colle o altri prodotti chimici e che siano cuciti con filati di cotone e non di nylon.
La progettazione di un capo determina l’80% dell’impatto ambientale. Per questo è essenziale l’eco-design per creare capi durevoli, riutilizzabili e riciclabili.
Dove e perché vedere il documentario “Stracci“
Dopo una lunga serie di proiezioni sia in Italia che all’estero, da qualche giorno, come anticipato, è possibile vedere “Stracci” sulla piattaforma Amazon Prime Video.
Ma ci sono anche altri canali. E’ possibile acquistare il Dvd negli shop online e nelle principali librerie. Inoltre, si può noleggiare su CG Digital e Chili Cinema.
“Stracci” è un documentario da vedere per tanti motivi. Diffonde consapevolezza sul destino dei nostri vestiti quando ce ne liberiamo. E’ un invito a consumare meno e meglio. Fa conoscere al grande pubblico la storia del riciclo del distretto tessile di Prato. Un patrimonio da tutelare e sostenere.
Foto cover @marcobadiani